L’atto di nascita della fabbrica si può far risalire alla autorizzazione per l’insediamento di un dinamitificio in Comune di Cengio (SV), località Ponzano, il 26 marzo 1882. Lo stabilimento di Cengio, con il nome Dinamitificio Barbieri, assieme a quello della “Dinamite Nobel” in funzione ad Avigliana (TO) dal 1873, è tra le prime fabbriche private italiane a sfruttare i brevetti dello scienziato svedese.
La fabbrica di Cengio assume dal 1891 il nome di Sipe (Società italiana prodotti esplodenti), e conosce un forte sviluppo, specie coi primi anni del nuovo secolo. A capo dell’azienda c’è l’ing. Ferdinando Quartieri, personaggio cruciale della chimica italiana dell’epoca, mentre direttore dello stabilimento è Luigi Magrini, coadiuvati da uno stuolo di chimici e ingegneri. Accanto al piccolo villaggio di Cengio sorge una città-fabbrica.
Nel 1908 vengono installati impianti per la produzione di 14.000 kg al giorno di acido nitrico, 13.000 di oleum (acido solforico fumante) e 2.500 di trinitrotoluene (tritolo); l’azienda di Cengio occupa già un’area di mezzo milione di mq. Nel 1912 a Cengio si producono 750 tonnellate di dinamite. L’espansione è legata alla crescita della domanda, a sua volta sollecitata dalla politica coloniale, in particolare dalla campagna di Libia.
Ma è il primo conflitto mondiale e l’entrata in guerra dell’Italia che determinano un’ enorme espansione degli stabilimenti della Sipe in Alta Valle Bormida: nel 1918 vi lavorano 6.000 operai e un centinaio di chimici e ingegneri in dieci impianti di acido solforico concentrato, tre impianti di acido nitrico, una fabbrica di fenolo, una di binitronaftalina, una di tritolo, una di acido picrico, una di balistite, una di nitrocotone. La produzione raggiunge le 100 tonnellate di esplosivi al giorno. In questi anni la Sipe è il punto di riferimento per altre industrie chimiche italiane, come la Sbic di Seriate (Bg), fondata nel 1905 per produrre lacche e coloranti, convertitasi alla produzione bellica fornisce alla fabbrica di Cengio nitrobenzolo, anilina e difenilammina.
La crescita occupazionale avviene attraverso un ampio reclutamento di forza-lavoro di origine contadina, sia in territorio ligure che nelle Langhe e in Valle Bormida.
Lo sforzo produttivo del periodo di guerra si concretizza in un forte aumento dell’impatto sul fiume Bormida, che già in quest’epoca diventa giallo. Nel 1916 dal solo impianto di acido picrico (trinitrofenolo) si scaricano giornalmente nel fiume dai 10 ai 50 metri cubi di acque di lavorazione, con un inquinamento che si estende di almeno 70 chilometri a valle della fabbrica.
Nel primo dopoguerra gli impianti della Sipe vengono convertiti alla produzione di coloranti e intermedi. In realtà, lo stabilimento di Cengio continuerà a produrre anche esplosivi: nel 1929 brevetterà un nuovo esplosivo del gruppo della pentrite, il tetranitrato di pentaeritrite.
Il settore dei colori artificiali sino alla guerra era stato dominato dall’industria tedesca. Il fabbisogno di coloranti, in primo luogo per l’industria tessile, era soddisfatto da importazioni dalla Germania, la quale occupava un posto di preminenza anche a livello mondiale.
La Sipe e le poche altre fabbriche italiane del settore «producevano principalmente prodotti intermedi a base di catrame, utilizzabili per la preparazione tanto di esplosivi quanto di colori sintetici. Non sussistendo [...] particolari problemi di riconversione, già nel 1918 il settore poté avviare le prime produzioni nazionali di materiali coloranti. A difesa di questo tessuto produttivo venne poi eretta la tariffa del 1921. Da allora una protezione di circa il 35-45% del prezzo dei colori di sintesi avrebbe dovuto impedire il rinnovarsi del predominio dei prodotti tedeschi sul mercato italiano».
Succede quindi che in Italia un ramo fondamentale dell’industria chimica viene tenuto a battesimo dalla chimica di guerra e vive sulle commesse militari. In questo passaggio gli stabilimenti di Cengio giocarono un ruolo cruciale: «in Italia l’industria dei colori organici derivò da quella degli esplosivi a seguito del processo post-bellico di riconversione degli impianti Sipe».
Negli anni Venti lo stabilimento di Cengio produceva ogni giorno 70 t. di acido nitrico concentrato; 16 t. di fenolo; 200 t. di acido solforico; 100 t. di balistite, acido picrico, trinitro-toluolo (tritolo), nitro naftalina, schneiderite, polvere senza fumo alla nitroglicerina, oltre a intermedi organici industriali. Intermedi e coloranti erano ottenuti per sintesi con le stesse materie prime (benzolo, toluolo, fenolo, naftalina, etc.) e con le stesse operazioni usate per gli esplosivi: nitrazione, solfonazione, riduzione dei nitroderivati ad ammine, clorurazione delle molecole organiche, fusione alcalina, etc.
L’espansione produttiva fu particolarmente rapida, sfruttando la facilità della riconversione e la momentanea difficoltà dell’industria tedesca; sorta dal nulla, l’industria italiana di coloranti e intermedi si attestava nel 1926 al sesto posto a livello mondiale e copriva quasi tutto il mercato interno. La Sipe andò però incontro ad una crisi di sovrapproduzione, venne messe in liquidazione per poi passare all’Italgas di Rinaldo Pazarasa nel 1925. A Cengio doveva essere concentrata la lavorazione dei sottoprodotti del gas e del coke metallurgico, allo scopo di produrre colori artificiali e, per necessità belliche, i gas, spostando invece la produzione di esplodenti in altre fabbriche del gruppo. Per completare il ciclo produttivo della chimica organica vennero acquistati lo stabilimento di colori Italica a Rho e, successivamente, nel 1927, gli impianti di Cesano Maderno della Società Bonelli.
L’Italgas per la sua politica espansiva fu costretta a ricorrere ripetutamente al credito bancario, sia sul mercato interno che internazionale, indebitandosi in maniera pericolosa. Panzarasa dichiarerà ai giudici, dopo il fallimento del suo gruppo, che «un autorevolissimo aiuto al nostro programma chimico ci venne da S.E. il capo del governo», preoccupato di tutelare la “nazionalità italiana” di un’impresa di interesse strategico.
Ed è sempre per seguire le direttive del governo e di Mussolini che l’Italgas, nel 1928, costituisce l’Acna (Aziende chimiche nazionali associate), riunendo gli stabilimenti di Cengio, Rho, Cesano Maderno, nonché l’impianto chimico di Bussi, in Abruzzo. Al vertice dell’ Acna, oltre a Panzarasa, vi sono Ernesto Belloni e Edoardo Colli, due esperti nei settori dei coloranti e intermedi. Nello stabilimento di Cengio si sviluppa ulteriormente la produzione degli intermedi, in particolare anidride ftalica e antrachinone.
Nonostante la grave situazione finanziaria, Panzarasa è costretto ad acquistare anche la “Marengo” di Spinetta (AL) su esplicita richiesta di Augusto Turati, segretario del partito fascista. L’Italgas è sull’orlo del fallimento: i collegamenti con l’Acna avevano da soli causato perdite per oltre 133 milioni. L’Acna viene ceduta a condizioni economiche gravosissime per l’Italgas; il gruppo acquirente è formato da Montecatini e IG Farben che, nel 1931, danno il via ad una nuova Acna (Società Anonima Colori Nazionali e Affini). Ancora una volta non si trattò di una pura operazione economica e di politica industriale: l’intervento dell’azienda di Guido Donegani «è in modo esplicito richiesto dal capo del governo.
Quanto alla IG Farben, la sua presenza nell’Acna e l’interesse per gli impianti di Cengio vanno inquadrati in uno scenario di ampio respiro. Il colosso tedesco detiene il 49% della quota azionaria; per evidenti motivi il fascismo, che ha gestito politicamente il passaggio alla nuova Acna, non può permettere che un’azienda di interesse bellico strategico cada apertamente in mano ad una società straniera.La forza della chimica tedesca, e in particolare dei produttori di coloranti, discendeva dalla superiorità tecnico-scientifica e dalla concentrazione del potere economico. Le principali industrie tedesche, tra cui la Basf, la Bayer e la Hoechst, nel 1925 avevano dato vita alla IG Farbenindustrie che deteneva il monopolio di vari prodotti ed era il principale produttore di molti altri.
L’accordo che la Farben stipula con la Montecatini poco prima dell’acquisizione dell’Acna è finalizzato ad evitare che si verifichi un processo di concentrazione nella chimica italiana e a bloccare l’avanzata dell’americana Du Pont.
Si è già detto delle produzioni principali dell’Acna, di seguito si forniscono alcuni dettaglio sui prodotti della fabbrica di Cengio: - acidi inorganici e derivati: acido solfotico concentrato e oleum, acido nitrico, acido cloridrico, solfuro di sodio; -idrato sodico e cloro: ipoclorito di sodio; -derivati del benzolo: nitrobenzolo, penta cloro-nitro-benzolo, 4-nitro-1,2-diclorobenzolo, orto-dicolo-benzolo, para-dicloro-benzolo; - toluolo; -fenolo e derivati: meta-amminofenolo (MAF); -anilina e derivati: 4-nitro-2-cloro-anilina, cloridrato di para-cloro-nitroanilina; -derivati della naftalina: acido salicilico (2-idrossibenzoico), nitro-naftalina, beta-naftolo, acido beta-ossinaftoico (BON), beta-naftilammina coi derivati: acido 2-ammino-5-naftol-6-solfonico (acido isogamma), acido 2-ammino-8-naftol-6-solforico (acido gamma); acido 2-naftol-6-solfonico (accido Schaeffer); acido 2-ammino-naftalen-solfonico (acido Tobias); acido 1-ammino-3-benzen-solfonico (metanilico); acido 2-naftol-3,6-disolfonico (acido R); anidride ftalica e derivati: acido ftalico (benzen-1,2-dicarbossilico), antrachinone, alfa-ammino-antrachinone (AAAQ), ftalocianine; ftalato di butile; -antinvecchianti per gomma: tiocarbanilide, defenilguanidina, mercaptobenzotiazolo, tiourami, ditiocarbammati sostituiti; -indaco; -ossido di ferro; cloruro di alluminio anidro.
L’obiettivo della nuova proprietà è di farne la base per la creazione di un’industria carbochimica integrata in Italia. In questo senso una tappa importante fu costituita dalla realizzazione, assieme all’Italgas, ora presieduta da Alfredo Frassati, della grande cokeria di San Giuseppe di Cairo (Cokitalia), la maggiore di cui disponesse la Montecatini e all’epoca la più grande d’Italia con una produzione, nel 1937, di 750.000 tonnellate di coke e di 18.000 t/anno di catrame, materia base per l’industria dei coloranti.
Ma la cokeria di San Giuseppe funzionava anche da supporto per il contiguo stabilimento di concimi chimici di Cairo Montenotte sulla Bormida di Spigno (sempre a poca distanza da Cengio). Dai gas della cokeria si ricavava idrogeno necessario alla produzione dell’ammoniaca e poi dell’azoto sintetico. L’industria dei concimi chimici, di cui era magna pars la Montecatini, godeva di una forte protezione doganale sulle spalle dell’agricoltura e, in particolare, dei contadini.
La posizione peculiare dell’Acna viene confermata da un episodio rivelatore: l’applicazione delle leggi razziali del 1938. L’Acna è l’unica azienda del gruppo Montecatini in cui l’epurazione contro gli ebrei è applicata con rigore. Nell’imminenza del secondo conflitto mondiale all’Acna venivano nuovamente potenziate le produzioni di guerra e questo può spiegare perché i tecnici considerati di “razza” ebraica venissero cacciati, ma non ci sono elementi per affermare che ciò avvenisse per imposizione della IG Farben.
Un incidente che si verifica a Cengio nell’autunno del 1939, causando cinque morti nel reparto pentrite, fa da spia all’impegno dell’Acna nella produzione di esplosivi. Dato che è confermato dall’aumento dell’occupazione, che dai 717 addetti del 1931, al momento del varo della nuova Acna, nel 1942 raggiunge i 2.431. Si resta comunque al di sotto delle cifre record della prima guerra mondiale, forse anche per difficoltà di approvvigionamento, dato che con l’entrata in guerra il carbone poteva arrivare solo dalla Germania per via terra.
Con la vittoria degli Alleati nella seconda guerra mondiale e il passaggio dalla chimica del carbone a quella dei derivati del petrolio, l’Acna perde la centralità che, nel contesto italiano, aveva occupato nei due cicli storici precedenti: quello della produzione di esplosivi e quello dei coloranti e degli intermedi ricavati dal catrame di carbone, con gli intrecci che abbiamo richiamato.
La quota che la Farben aveva nell’Acna passa allo Stato italiano che la cede all’Anic, cioè alla chimica di Stato, ciò sino al 1959, quando la Montecatini acquisisce la quota Anic.
Negli anni Sessanta e Settanta, l’Acna di Cengio, in assenza di ogni politica di controllo sull’impatto ambientale, registra una nuova fase di espansione sia interna che per le politiche di concentrazione e acquisizione poste in atto. In particolare l’Acna nel 1964 acquisisce l’Industria Chimica Saronio di Melegnano, attiva dal 1926, per chiuderla poco dopo (1966). Era una fabbrica attiva su produzioni affini: coloranti e intermedi nonché gas bellici. Degli stessi anni è l’acquisizione della ex Pirelli di Vercurago (Bg), sorta nel 1916, in cui veniva prodotta la difenilgrunidina, antinvecchiante per gomma.
Nel sistema Acna il secondo polo di grande rilievo era costituito dallo stabilimento di Cesano Maderno. Sorto nel 1908, agli inizi produceva principalmente olio di anilina e colori allo zolfo: negli anni Venti e Trenta la produzione principale è l’indaco, successivamente produce coloranti per tessuti misti (acetilcellulosa). Nel 1941 viene inaugurato il primo grande stabilimento italiano per la produzione di PVC. La fabbrica ha dimensioni e produzioni paragonabili a quelle di Cengio, però incontra qualche problema in più dal punto di vista ambientale e soprattutto delle lotte dei lavoratori per la salute. La strategia manageriale è chiara: spostamento delle lavorazioni più pericolose del gruppo all’estero e nello stabilimento di Cengio. Quando a Cesano la contestazione operaia si fa più forte e vivace, con il rischio di un contagio delle stesse maestranze di Cengio, lo stabilimento viene ceduto alla Pigmenti Italia (per finire poi alla Basf) con il licenziamento di 1.300 operai.
A Piacenza, nel 1924, la società “Industria applicazioni chimiche” (Iac) aveva costruito il suo stabilimento a ridosso del centro storico. L’attività principale è la produzione di coloranti organici, realizzata in condizioni disastrose, tra l’altro con gli scarichi direttamente nelle fognature comunali. Lo stabilimento negli anni Cinquanta entra a far parte del gruppo Lanerossi e nel 1965 viene rilevato dall’Acna. Secondo l’azienda, già nel 1955 era cessato l’uso della betanaftilammina, dal 1962 quello della benzidina e dal 1972 non veniva più usata l’alfanaftilammina; infine, dal 1978, in seguito ad interventi esterni, venne chiusa la produzione di ossietilati. La successiva chiusura dello stabilimento, nei primi anni Ottanta, da parte dell’Acna ha avuto probabilmente come motivo principale l’impossibilità di rinnovare gli impianti a causa dello stato fatiscente dei medesimi.
Ma, a parte ciò, la chiusura degli stabilimenti di Cesano e Piacenza è l’esito di un processo di più lungo periodo, che attraversa a sua volta due fasi. Nella prima, a partire dalla metà degli anni Sessanta, si realizza l’assorbimento e poi la chiusura di quasi tutte le fabbriche di coloranti e intermedi presenti in Italia, con la concentrazione della produzione negli stabilimenti Acna. Poi, nei primi anni Ottanta, sino all’esplosione del movimento di protesta in Valle Bormida, la strategia aziendale punta in modo evidente ad una concentrazione della produzione a Cengio, contemporaneamente ad una forma di internazionalizzazione con proiezioni all’estero (Spagna e India).
Gli anni Settanta vedono una forte espansione occupazionale, dell’Acna (da 3.740 dipendenti a 4.248 nel 1979), che sfrutta la sua completa libertà di esternalizzazione dei costi ambientali. Ma nel resto del mondo ci sono Paesi che possono produrre a costi inferiori e popolazioni costrette a subire inquinamenti peggiori.
Agli inizi degli anni Ottanta la situazione economica dell’Acna si fa di colpo pessima: nel 1982, su un fatturato di 192.344 milioni, denuncia 82.319 milioni di perdite, mentre l’occupazione, da 3.841 unità nel 1980, scende a quota 2.686. L’Acna si trova ad operare in un mercato molto difficile, in una posizione di sostanziale dipendenza dai grandi gruppi europei che avevano da sempre dominato la chimica dei colori: Ciba, Bayer, Basf, Hoechst, Ici, Sandoz. Lo spazio che riesce a ritagliarsi è legato a produzioni che i tedeschi o gli svizzeri non vogliono gestire in proprio per pericolosità e impatto ambientale, ma, con l’industrializzazione di alcune aree del Terzo mondo, anche questa “rendita di posizione”, pagata a caro prezzo dalla Valle Bormida, è annullata.
Nei primi anni Ottanta, in ambito Montedison (gestione Schimberni), l’Acna viene drasticamente ristrutturata a causa di una situazione insostenibile, di qui la decisione di disimpegnarsi dalla produzione finale di coloranti e pigmenti e di conservare invece la presenza negli intermedi. A tal fine, all’inizio del 1983, l’attività intermedia di chimica organica dello stabilimento di Cengio venne scorporata e conferita a una nuova società, l’Acna chimica organica.
In seguito a queste operazioni, che per altro non riuscirono a risollevare le sorti dell’Acna, l’occupazione passò nel giro di quattro anni da più di 4.000 a circa 800 unità.
La risposta dell’Acna alla situazione di crisi e alla inaspettata mobilitazione popolare, sviluppatasi intensamente dalla seconda metà del 1987, si concretizza nel progetto “Re.sol.”: azienda, sindacato e Ministero dell’Ambiente siglano un protocollo d’intesa per la realizzazione di un impianto di “recupero solfati” nel settembre del 1988.
Come in altri momenti della storia dell’Acna, anche questo capitolo conclusivo vede l’apporto della tecnologia tedesca: il progetto dell’impianto è infatti di un’azienda di primo piano in questo settore, la Lurgi, ma l’aspetto tecnico è forse secondario rispetto a quello politico. La Lurgi italiana, all’epoca, apparteneva per il 51% alla casa madre (Lurgi Groupe di Francoforte), per il 20% alla Pianimpianti e per il 29% alla Mafrisa S.r.l. di Milano. Quest’ultima era riconducibile a Bartolomeo De Toma e a Gianfranco Troielli, uomo chiave dell’impero finanziario craxiano.
La Lurgi aveva costruito l’inceneritore di Massa e progettato il suo ampliamento; infatti, in perfetto parallelismo con il Re.sol. a Cengio, tale inceneritore era diventato il centro di tutti gli interessi della Farmoplant/Montedison a Massa Carrara.
Il Re.sol. di Cengio rientrava in una strategia piuttosto chiara: rendere redditizi impianti industriali obsoleti, riconvertendoli nel business dei rifiuti e presentandoli come impianti ecologici utili o indispensabili per realizzare la bonifica del sito, la quale, in tal modo, invece di rappresentare un costo per gli inquinatori si sarebbe trasformata in un buon affare.
Nel novembre 1989 l’Acna commissiona alla Lurgi l’impianto di Re.sol., che negli anni successivi viene in gran parte effettivamente costruito (circa il 70%), nonostante ogni sorta di opposizione e la mancanza delle necessarie autorizzazioni.
Nel gennaio del 1990, il Ministro dell’Ambiente Ruffolo decide la riapertura dell’Acna, dopo un blocco di sei mesi. L’Acna era stata chiusa di autorità da Ruffolo il 6 luglio 1989, dopo che l’azienda aveva deciso di propria iniziativa di rientrare in produzione senza attendere che le opere antinquinamento, concordate a fine maggio tra Ministero, Enimont e sindacati, fossero sottoposte a verifica.
La ripresa dell’attività produttiva, anche a ritmo ridotto, determina un nuovo forte impatto ambientale attraverso le emissioni dei 95 camini dell’Acna, i dieci lagoons e i reflui immessi nel fiume previo trattamento e diluizione. Uno dei motivi per cui gli impianti funzionano a singhiozzo deriva dall’impossibilità di trattare i liquami se gli impianti vanno a pieno regime. Nondimeno gli “stabellamenti” rispetto a quanto previsto dalla Legge Merli sono frequenti, a partire dal parametro sulla temperatura dell’acqua.
Alla ripresa dell’attività produttiva, dopo le chiusure dell’88 e dell’89, vengono rimessi in funzione a Cengio i numerosi reparti di cui si compone la fabbrica, tra cui Tobias-Isogamma, Acido Bon, Sulzer, Oleum, Maf, Betanaftolo, Ftalocianine. In specifico nella sua ultima fase produttiva l’Acna era in grado di produrre circa 30.000 t/anno di intermedi organici, in particolare: - beta naftolo; acido BON; acido Tobia; acido isogamma; alfa-ammino-antrachinone; ftalocianine; meta-ammino-fenolo; ammine aromatiche; oleum.
Nel frattempo la ripresa produttiva, e la decisione del governo di optare per il mantenimento in attività dell’Acna, non determinano una inversione nei conti in rosso dell’azienda, anzi l’Acna nel ’91, senza interruzioni di attività, perde più degli anni precedenti (83 miliardi, contro 77,6 nel ’90, 62,2 nell’89, 16,2 nell’88).
Nella primavera del ’92 l’Enichem stipula un accordo con la “Indian Dyestuff” per la realizzazione, in India, di uno stabilimento per la produzione di ftalocianina. A Cengio il reparto ftalocianina, balzato all’attenzione della cronaca anche per un’esplosione avvenuta nel febbraio del ’91, era stato posto sotto osservazione per l’impiego di 1.2.4 triclorobenzene come solvente. La dirigenza Acna esclude rischi e pericoli, nondimeno si punta alla chiusura del reparto o meglio al suo trasferimento in India, ciò, per altro, è dovuto principalmente ad una disposizione comunitaria che prevede il divieto di utilizzo del triclorobenzolo.
Il dato inoppugnabile è che l’Acna contribuisce in modo rilevante ai conti in rosso di Enichem, che quindi tende a liberarsi dello stabilimento di Cengio – eventualmente scorporando il Re.sol. dalla fabbrica –. Nell’ambito di queste operazioni ritornano alla ribalta gli antichi legami con la grande industria chimica tedesca. Legami per altro ancora ben vivi, infatti «Bayer, Basf e Hoechst sono clienti dell’Acna dalla quale acquistano gli intermedi per coloranti che non producono in proprio a causa dell’elevata tossicità».
Le trattative non vanno a buon fine, evidentemente prevale nella grande industria chimica tedesca la considerazione che, nonostante tutti gli appoggi politici di cui continua a godere l’Acna, è meglio non assumersi una responsabilità diretta nel mantenere in vita la fabbrica di Cengio.
Nell’autunno del 1993 l’Enichem decide di mettere in liquidazione l’Acna (delibera degli azionisti del 29 ottobre 1993). Per altro una Commissione ministeriale, nominata dal governo Ciampi, si pronuncia (il 27 ottobre 1993) a favore del Re.sol.
Nel 1994 l’“Acna c.o. in liquidazione” insiste per poter finire e mettere in funzione il Re.sol.; a parte gli effetti ambientali e la scarsa occupazione (30 addetti circa) è il pezzo più pregiato da mettere in vendita, in vista del business dei rifiuti. Contestualmente, ma sempre in ambito Enichem (cioè pubblico), una parte degli impianti viene conferita ad una nuova società, l’Organic Chemicals.
Nell’estate del ’94 l’ennesima Commissione ministeriale (presidente Ricciuto) appoggia la costruzione del Re.sol. ritenendolo la soluzione ottimale per risolvere il problema Acna. Nel luglio del ’94 l’azienda presenta domanda di VIA(Valutazione di Impatto Ambientale) al Ministero dell’Ambiente, sulla base di uno studio della Snam Progetti. La richiesta non viene accolta perché la documentazione, a partire dalla natura del Re.sol., non è ritenuta soddisfacente; l’Acna dovrà integrare e ripresentare la domanda.
Ormai da molti anni, sia per la situazione di mercato che per i problemi ambientali, quasi tutti i reparti dell’Acna funzionavano al di sotto delle potenzialità o erano chiusi per lunghi periodi. I risultati economici erano poco meno che disastrosi; secondo un’interrogazione dell’on. Pagliarini – parlamentare leghista esperto in materia contabile – l’Acna di Cengio nel triennio 1990-1992 ha accusato perdite di 391 miliardi di lire (602 milioni per ogni dipendente) parzialmente coperte dall’Eni, cioè dallo Stato, con interventi per 194 miliardi (291 milioni per dipendente).
In effetti sembra che gli stessi dirigenti dell’Acna abbiano gonfiato i deficit, ma le loro responsabilità più gravi vanno al di là degli aspetti legati ad una stagione di montante degrado della moralità pubblica e privata.
La richiesta di chiusura avanzata dal movimento di contestazione della fabbrica di Cengio, apparentemente provocatoria, sanciva un dato di fatto: l’Acna non aveva più ragione di essere, veniva mantenuta in vita artificialmente, per perseguire disegni ancora una volta poco trasparenti e non meno rischiosi per la salute e per l’ambiente.
Il 1° agosto 1996 il Ministero per l’Ambiente, Edo Ronchi, esprime parere negativo sul Re.Sol. per il mancato rispetto delle prescrizioni concernenti la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA). Il 3 giugno 1997 il Ministro Ronchi decreta la non compatibilità ambientale dell’inceneritore Re.Sol.A fine secolo (nel gennaio 1999) l’Acna viene ufficialmente chiusa. Lo stesso anno, il 18 marzo, è istituito un Commissario delegato per l’emergenza, con il compito di affrontare la bonifica. Commissario è Stefano Leoni. La stima è di tre milioni di metri cubi di inquinanti, a cui sono da aggiungere 300.000 metri cubi di reflui stoccati nei lagoons, per i quali l’Acna aveva chiesto la costruzione dell’inceneritore.
Le decisioni assunte e le azioni principali messe in atto prevedono il contenimento in loco del grosso degli scarti di produzione (“bare di cemento”) mentre i restanti residui velenosi vengono trasportati per ferrovia nella cave di salgemma della ex Germania dell’est (miniera di Teutshental, zona di Lipsia).
Nel 2005, in mezzo a molte polemiche, il governo Berlusconi sostituisce il commissario Leoni con l’ex prefetto di Genova Giuseppe Romano. La bonifica viene considerata conclusa nel 2008. «Permane (però) una situazione di incertezza sul futuro dell’area, metà della quale (il sarcofago in cui sono stati depositati i rifiuti, la cui superficie è pari a circa 25 ettari) è inutilizzabile per qualsiasi scopo, mentre l’altra metà è a disposizione per eventuali insediamenti industriali».
Le trattative e gli accordi tra l’ENI, che attraverso la Syndial (ex Enichem) è proprietaria dell’ex Acna e la Regione Liguria prevedono il passaggio delle aree in mano pubblica, per avviare progetti vari di re-industrializzazione, sostenibili e compatibili.
La storia dell’Acna come fabbrica chimica è finita da tempo. La storia del suo impatto sull’ambiente è destinata a durare a lungo.
Nel 2009 la Commissione europea apre una procedura di infrazione contro l’Italia per il mancato rispetto della normativa ambientale nella riabilitazione dell’ex sito dell’Acna di Cengio. Un successivo intervento della Commissione è degli inizi del 2011, sempre per mancato rispetto delle normative comunitarie in tema di trattamento dei rifiuti.
Da allora gli allarmi si succedono perché il “sarcofago” non trattiene completamente l’inquinamento; nel frattempo continuano anche le proposte di riutilizzo industriale del sito. E’ una storia bloccata, il peso del passato è per ora troppo grande per le forze degli attori in campo: conoscerlo è necessario anche se non sufficiente per trovare una via d’uscita.
Lo sforzo produttivo del periodo di guerra si concretizza in un forte aumento dell’impatto dell’Acna sul fiume Bormida, che già in quest’epoca diventa giallo. Nel 1916 dal solo impianto di acido picrico (trinitrofenolo) si scaricano giornalmente nel fiume dai 10 ai 50 metri cubi di acque di lavorazione, con un inquinamento che si estende di almeno 70 chilometri a valle della fabbrica. Nel corso del tempo l’inquinamento si allargherà e verranno versate altre sostanze e composti che, a loro volta, possono dar vita ad inedite combinazioni; attraverso conversioni e riconversioni, produzioni civili e militari, la futura Acna per molto tempo utilizza i derivati dal carbone, dalla distillazione del catrame.
Il caso dell’Acna non è unico o eccezionale, se non per la durata storica dell’inquinamento e per l’ostinazione con cui i governi, al di là dei cambiamenti nella forma dello Stato, dalla monarchia al fascismo alla repubblica e alla cosiddetta “seconda repubblica”, hanno continuato sino all’ultimo a difendere gli impianti chimici di Cengio, non ispirandosi a criteri economici ma politico-strategici, se non puramente ideologici. Dopo la conversione dagli esplosivi ai coloranti un incidente che si verifica a Cengio nell’autunno del 1939, causando cinque morti nel reparto pentrite, fa da spia all’impegno dell’Acna nella produzione bellica.
Secondo un dossier depositato presso il National Archives di Londra, di attendibilità relativa, l’Acna di Cengio era il principale centro di produzione dell’acido clorosolforico, alla base degli aggressivi più feroci: «Le foto aeree lo confermano. C’è un deposito. Produzione 50-60 mila tonnellate l’anno».
In ogni caso, dopo la pausa dell’immediato secondo dopoguerra, con effetti benefici sul fiume, la seconda metà degli anni Cinquanta segna una ripresa in grande stile dell’inquinamento, il fiume diventa giallo-rossiccio sino ad Acqui e oltre, nella valle ristagna nebbia all’acido fenico.
La consapevolezza della nocività delle produzioni Acna emerge dagli atti della prima conferenza di produzione, tenutasi il 20 aprile 1950 su decisione della Commissione interna e del Consiglio di gestione , ed è confermata da un documento della Commissione interna in data 1° aprile 1956.
Nonostante le lotte contadine degli anni Cinquanta, solo nel 1959 la Camera del Lavoro di Savona chiede all’Ispettorato del Lavoro un’ispezione ai reparti Basi e Cloruro di alluminio. Le cose rimangono come prima; il reparto Basi venne poi chiuso nel 1972 su richiesta del Consiglio di fabbrica, mentre quello di Cloruro di alluminio salterà in aria nel maggio 1979, con un incidente che poteva avere conseguenze catastrofiche anche per la popolazione e che causa due morti e vari feriti tra i lavoratori (l’Acna copriva il 25% del mercato mondiale di cloruro di alluminio).
Nel 1960 la Filcep-Cgil e l’Inca di Savona promuovono un’indagine su “La condizione operaia all’Acna di Cengio”, i cui risultati vengono presentati in un convegno del febbraio 1962. I contatti con i lavoratori avvengono in “semiclandestinità”; l’indagine si concentra su alcuni reparti: Riduzioni, Gruppo Anilina, Gruppo Basi, Antrachinonici, Cloro Benzolo, Soda Cloro, Benzoldeide, Bleu, Acido H, Betanaftilammina; in essi, su 600 dipendenti il 60% percepisce le indennità «penosa, nociva, disagiata». Complessivamente l’Acna di Cengio fabbrica oltre 200 prodotti e «per la maggior parte sono dannosi e nocivi alla salute». Al convegno viene invitato l’Inail di Savona che però risponde con una richiesta di chiarimenti «poiché questa sede non è a conoscenza di una situazione infortunistica o di malattie professionali anormali».
L’indagine della Cgil fornisce alcuni squarci sulla realtà all’interno della fabbrica in un momento di espansione produttiva e occupazionale senza alcuna preoccupazione per gli effetti sulla salute e l’ambiente.
«Reparto riduzioni. È uno dei reparti più vecchi della fabbrica. La sua costruzione risale al 1918-1920. Il reparto si divide in tre sezioni: Paranitroanilina, Paranitrofenetato, Riduzioni... Quasi tutti gli operai percepiscono l’indennità “nociva”. [Vengono segnalati casi di cancro alla vescica, N.d.A.]... Il reparto Naftoli è stato ricostruito di recente, ma ciò nonostante un operaio è stato ricoverato all’Ospedale Civile di Savona per cancro alla vescica [...]. I prodotti che vengono lavorati dalle Riduzioni sono nocivissimi e non sempre si può essere in grado di stabilire quali conseguenze essi determinano nell’organismo umano [...]. Il lavoro della Paranitroanilina, del 4NC e del 2NC, è dannoso alla salute, sia durante l’operazione di essiccazione che quella di macinazione [...]. Grave inconveniente da eliminare alle Riduzioni è quello dell’arrivo dei prodotti “nitriti” in bidoni e fusti di legno aperti [...]. Altri due grossi problemi da affrontare al Reparto Riduzioni sono quelli della distillazione e della scagliatura dell’Alfanaftilammina.
L’Alfanaftilammina è un prodotto che provoca il cancro della vescica. Come richiesta immediata i lavoratori chiedono il trattamento usato per gli stessi operai della Betanaftilammina. [...] Gli operai soffrono di inappetenza e hanno pressione bassa. Non hanno nessun mezzo protettivo, neppure tute speciali né indumenti intimi. Sono continuamente esposti alle esalazioni gassose dei catrami della distillazione dell’Alfanaftilammina.
Reparto Acido H. È questo uno dei reparti privi di nocività [...], ma vi sono casi di lavoratori colpiti da dermatosi. Vi sono frequenti fughe di gas solforico, per fuoriuscita dai camini della riduzione della distillazione. In alcune ore della notte si registrano abbondanti fughe di fumi nitrosi provocati dalla nitrazione dei prodotti del reparto [...].
Reparto Basi, Anilina. In questo reparto lavorano 38 operai e 2 equiparati. Tutti percepiscono l’indennità di “penosa”. In un solo mese si sono verificati sei casi di avvelenamento. Il prodotto più nocivo è la Metafenildiamina [...]. Gli operai del Bleu lamentano vari stati di malesseri: mal di stomaco, mal di capo, dolori viscerali, vomito. Gli ambienti di lavoro alle Basi e all’Anilina contano circa 30 anni di vita e sono vecchi e antiquati.
All’Anilina un operaio è morto di cancro e sono parecchi gli operai che hanno subito avvelenamenti. Alle Basi non si registrano avvelenamenti violenti. Però l’avvelenamento è lento e l’operaio invecchia in media di dieci anni prima del tempo. [...]. Per ragioni comprensibili, non siamo in grado di dire quanti siano gli operai della fabbrica colpiti da dermatosi e da avvelenamenti, o predisposti ad essere colpiti dal cancro. Possiamo però affermare senza tema di smentita che all’Officina Meccanica su 111 operai e 7 equiparati, vi è stato un periodo in cui 36 operai erano esonerati dall’eseguire lavori nei reparti nocivi. Fra questi circa 20 sono casi di una certa gravità.
[L’indagine si conclude con una breve ma significativa panoramica sulla situazione fuori dalla fabbrica, N.d.A.]. Il problema della nocività dell’Acna di Cengio non è limitato ai reparti da noi presi in osservazione, ma investe tutta la fabbrica, oltre ad estendersi all’intero territorio.
Dall’avvicinarsi dell’autunno fino a primavera inoltrata non si riesce a vedere il sole prima delle 10.30, in certe giornate prima delle 12. Una nebbia fitta, di odore sgradevole, brucia gli occhi e soffoca la respirazione, sino a provocare sintomi di vomito. Essa avvolge tutta la fabbrica e dilaga all’esterno fino oltre Cortemilia».
In sostanza l’inchiesta di fabbrica conferma ampiamente le risultanze dell’indagine medica condotta con scrupolo, ma su un piccolo campione di lavoratori (52). Vennero riscontrate dermatosi di «inconfutabile carattere professionale», «chiari segni di compromissione epatica» e ciò nel 62,9% dei casi, frequenti bronchiti croniche a carattere asmatico.
Per la prima volta emergono dati precisi anche se ben lontani dal poter fornire una radiografia della situazione “storica” e di quella in atto, tenuto conto che le sostanze utilizzate all’Acna di Cengio, tra gli anni ’50 e ’60, potevano teoricamente causare una serie impressionante di malattie professionali (secondo le tabelle della legge n.1967 del 15.11.1952): malattie causate da acido solforico; malattie causate da idrocarburi benzenici; malattie causate da fenoli, tiofenoli, cresoli; malattie causate da derivati amminici degli idrocarburi benzenici e dei fenoli; malattie causate da derivati alogenati, nitrici, solfonici e fosforati degli idrocarburi benzenici e dei fenoli; malattie causate da naftalina ed omologhi, naftoli e naftillammine, derivati alogenati solforati e nitrati della naftalina ed omologhi; malattie causate da anilina e derivati.
A fronte di ciò vi era il dato sconcertante che apparentemente gli operai di Cengio non contraevano malattie professionali – almeno sulla base dei dati dell’Inail –, e che, d’altra parte, l’Acna, stando agli esiti delle cause giudiziarie, non inquinava nemmeno le acque e il territorio, per cui se non costituiva un pericolo per chi vi lavorava, a maggior ragione non era fonte di rischio reale per le popolazioni della Valle Bormida. Ciò pone però il problema dell’atteggiamento e comportamento dei lavoratori dell’Acna di Cengio, i quali hanno accettato la loro condizione di persone esposte ad alti rischi, di cui è insensato pensare che non conoscessero l’esistenza e la natura.
L’insediamento chimico di Cengio ha visto succedersi molte generazioni di operai, nondimeno alcune costanti sembrano individuabili, tra queste un basso livello di conflittualità e una forte identificazione con l’azienda, risultante da un intreccio di motivazioni: dalla dipendenza materiale e psicologica, all’accettazione fatalistica di un rischio che si concretizzava in esiti letali solo casualmente e dopo lunghi periodi di latenza, all’orgoglio di lavorare in una fabbrica ad alto contenuto tecnico-scientifico.
Possiamo dire che solo negli anni Sessanta – a distanza di ottant’anni dal primo insediamento – si manifestano i primi, timidi, segnali di dibattito all’interno della fabbrica. Il clima di paura e di intimidazione che vigeva in fabbrica, la sostanziale debolezza e divisione del movimento dei lavoratori, la mancanza di una componente tecnica su posizioni critiche e comunque con una propria autonomia nei confronti dell’azienda, sono tutti elementi che concorrono a far rientrare rapidamente le azioni di lotta, che non vanno oltre obiettivi minimalistici e che, per tempo, dimostrano di non voler superare i muri della fabbrica, di temere il confronto con il territorio e la popolazione, al di là del perimetro del paese-fabbrica.
Già vent’anni prima della contrapposizione che caratterizza l’ultimo periodo della vicenda, si verifica a Cengio un episodio sintomatico: il 25 novembre 1965, promosso dalla Cisl, con la parola d’ordine «Vogliamo lavoro e pane, non acqua e fame» le maestranze dell’Acna, contro i contadini e tutti coloro che contestavano la fabbrica per i danni alla salute e all’ambiente, attuano uno sciopero a rovescio, con l’appoggio dei dirigenti dell’azienda e in esplicita rottura dell’unità sindacale.
D’ altro canto le istituzioni dello Stato premiano l’Acna e ridicolizzano le proteste e le rivendicazioni dei contadini. Nel 1961 la Corte d’Appello di Milano, nella causa fra trenta contadini della Valle Bormida e l’Acna, assolve la fabbrica e imputa agli stessi contadini, alla loro arretratezza, le cause della crisi e del degrado dell’agricoltura della Valle. Per parte sua il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche respinge il ricorso delle province di Cuneo, Asti e Alessandria contro le concessioni di acqua all’Acna.
Diversa è la prospettiva di chi vive nel territorio: «Nella Valle Bormida il fiume inquinato dalle industrie di Cengio è una serpe di melma schifosa che avvelena l’ambiente. La nebbia del Bormida si impasta col veleno, sale verso l’alto, dove arriva la nebbia arriva la peste. Il ricatto che i padroni impongono è spietato, crudele: “Volete i figli in fabbrica? Godetevi il veleno”».
L’impatto negativo sulla salute, tanto dei lavoratori che delle popolazioni attraverso gli scarichi in ambiente, concerne una complessa tipologia di possibile rilevanza medica, per altro ampiamente inesplorata perché non si conoscono le combinazioni chimiche e non si sa quali danni, specie di medio e lungo periodo, possono provocare; in questo ambito il rischio oncogeno è solo uno dei fattori da prendere in considerazione, anche se innegabilmente il più rilevante e quello di maggior impatto emotivo.
La cancerogenicità di diverse sostanze impiegate nei cicli produttivi dell’Acna era nota da molto tempo. Il BIT (Bureau International du Travail) aveva segnalato in una pubblicazione del 1921: «L’evidenza incontrovertibile della cancerogenicità delle ammine aromatiche». Nel 1964, L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) tra i cancerogeni occupazionali riconosciuti segnalava la benzidina, la 2-naftilammina, il 4-aminodifenile, nonché alcuni prodotti della distillazione e frazionamento del carbone e della distillazione del petrolio.
Abbiamo visto come la fabbrica di Cengio, sin da quando produceva esclusivamente prodotti bellici, fosse uno dei primi e più importanti stabilimenti italiani nel campo della chimica organica e come utilizzasse il catrame e i suoi distillati quali materie prime. Ed è proprio in questo settore produttivo, negli stessi anni in cui nasce la futura Acna, che in Germania iniziarono le ricerche su chimica e tumori.
Gli studi sulla cancerogenesi chimica sono nati in seguito all’osservazione clinica (R. V. Volkmann, 1875) – e successivamente alla dimostrazione sperimentale – degli effetti del catrame sui lavoratori. Scartata la possibilità che l’effetto oncogeno fosse dovuto ai costituenti inorganici, in particolare all’arsenio, si accertò che «l’attività oncogena è riferibile a idrocarburi aromatici e precisamente a quelli che distillano tra 300° e 400° [...], da allora sono stati isolati oltre trecento idrocarburi cancerogeni a potenza variabile».
In specifico, per quel che concerne i coloranti e gli intermedi, più di un secolo fa, in base ad osservazioni cliniche, venne individuato come malattia professionale il tumore alla vescica che colpiva i lavoratori a contatto di anilina e derivati. Gli studi condotti successivamente dimostrarono che la semplice molecola dell’anilina non è cancerogena; lo sono invece la beta-naftilammina, la beta-antrammina e il 2-amminofluorene: «Per quanto riguarda la beta-naftilammina è verosimile che il corpo attivo sia un prodotto del suo metabolismo, probabilmente identificabile nel 2-ammino 1-naftolo che viene eliminato con le urine e pertanto permane in vescica».
Osservazioni mediche effettuate all’Acna di Cengio e di Cesano Maderno dal 1936 al 1948 stabilivano che, su 202 lavoratori tenuti sotto controllo, solo 95 erano in condizioni normali, gli altri soffrivano di lesioni o forme tumorali.
Nel 1960 il medico di fabbrica dell’Acna di Cesano, poi ufficiale sanitario di Seveso, dopo avere evidenziato che «l’azione cancerogena delle ammine aromatiche è stata documentata da numerose ricerche sia cliniche che sperimentali», si pone questo dilemma: «Qual è la massima quantità tollerabile di basi, presenti nelle urine per periodi prolungati di tempo, senza che si abbia insorgenza di processi neoplastici?». La sua conclusione è che «il quesito potrà avere una risposta convincente solo dopo anni di osservazione continua e precisa». Osservazioni continuate su cavie umane non informate e inconsapevoli!
Così l’impiego di diclorobenzidina veniva ufficialmente difeso dato che non esistevano prove di cancerogenità nell’uomo; contemporaneamente, in un documento del 1970 sulla diclorobenzidina a carattere riservato, l’Acna avvisava che «il contatto cutaneo e la respirazione della polvere e dei vapori possono essere dannosi alla salute; l’assorbimento attraverso il corpo, prolungato per più anni, può causare tumore alla vescica».
La tutela della salute dei lavoratori in ambiente medico, nel secondo dopoguerra, era concepita in modo singolare: «Si suggeriva di adibire alle mansioni pericolose soltanto operai di età avanzata, per esempio verso la cinquantina d’anni, così che quando poi capitano i tumori... tutto sommato quei poveretti avrebbero già vissuto abbastanza! E non basta, si suggeriva anche di evitare un allargamento del pericolo, dato che chi è stato esposto per pochi mesi tanto è condannato lo stesso [...]. Sapendo che questo lavoro era una condanna, si cercava soltanto di limitare il numero dei condannati».
Nelle aziende ad alto rischio come l’Acna vengono usate diverse tecniche di dissimulazione: tra le più comuni c’è la sostituzione di sostanze riconosciute tossico-nocive con altre chimicamente simili ma su cui non si hanno ancora dati epidemiologici probanti. Altra procedura è quella di utilizzare la mobilità interna del personale per dissimulare le fonti precise del danno alla salute. Vengono poi utilizzate le risorse del decentramento produttivo e dello spostamento delle produzioni nocive e ad alto impatto ambientale in aree più deboli e marginali.
Negli anni Settanta il “Gruppo di lavoro ammine aromatiche”, sorto all’Acna di Cesano Maderno, cercò di stabilire un collegamento tra i lavoratori delle fabbriche coinvolte nel grave problema del cancro alla vescica come malattia professionale.
«A quanto si sa, la Montedison aveva cessato in Italia dal ’72 le lavorazioni che comportano l’uso della pericolosissima benzidina, per trasferirla nella fabbrica Acna di Barcellona. Anche una parte delle materie prime più pericolose, una volta prodotte a Cesano Maderno, ora venivano prodotte a Cengio».
L’Acna di Cesano Maderno, pur essendo localizzata in una zona di vecchia industrializzazione (nord Milano) e fortemente antropizzata, presenta una storia ricca di significative somiglianze con l’azienda di Cengio, non solo perché le produzioni sono analoghe o complementari, e così pure gli effetti per la salute e l’ambiente, ma anche per la composizione della forza-lavoro. Per molto tempo la fabbrica riesce a reclutare mano d’opera nei piccoli paesi delle Groane (Parco naturale regionale dal 1976), dove la mancanza di alternative e una concezione fatalistica della vita assicurava la fedeltà alla fabbrica in cambio di un modesto benessere. Nonostante il primo caso di decesso (per cancro alla vescica) risalisse al 1936, bisogna arrivare agli anni Cinquanta per registrare qualche protesta e la richiesta di non usare più la benzidina (diclorobenzidina). Un cambiamento nell’atteggiamento operaio si avrà solo dopo il 1969, in seguito al movimento generale che coinvolge la società e al mutamento nella composizione di classe. Nel 1972 viene costituito il Consiglio di fabbrica, ma la svolta si ha nel 1977, in seguito ad un’ispezione ministeriale che evidenzia gravi problemi per la salute dei lavoratori. Sulla questione della salute e dell’inquinamento esterno si determina una spaccatura tra i dipendenti; la frazione più radicale, che non crede si possano separare le due cose e contrapporre gli interessi e le ragioni degli operai a quelle della popolazione, dà il via nell’autunno 1977 al Gruppo di lavoro sulle ammine aromatiche (G.L.A.A.R.). Si tenga anche presente, per capire il mutamento di sensibilità, che l’area di Cesano Maderno è una di quelle direttamente interessate dal disastro dell’Icmesa del 10 luglio 1976.
Il Glaar, a partire da un convegno tenuto presso la Fondazione Seveso di Monza il 21 febbraio 1978, denuncia che «l’Acna attraverso le acque di scarico e i camini della fabbrica immetteva nell’ambiente esterno una quantità enorme di ammine aromatiche libere e di metalli pesanti». In particolare, le acque di lavaggio dei reattori venivano immesse nella roggia Lombra con il solo trattamento a base di ipoclorito, che non poteva rendere innocue le ammine e serviva solo ad aggiustare il ph.
L’inquinamento risaliva agli anni Venti, con pochi segnali di contestazione circa l’uso che l’Acna faceva dei corsi d’acqua (Lombra e Garbogera) in cui aveva ottenuto di poter scaricare su autorizzazione del Genio civile di Milano (dal 1927 in poi). Solo nel 1951, per iniziativa del Consorzio di bonifica Nord Milano, vengono fatti dei controlli. Nel 1953 la Prefettura di Milano ordina all’Acna di sottoporre a trattamento le acque; l’azienda costruisce un impianto vicino al torrente Lombra, «ma nello stesso tempo i reparti della parte vecchia della fabbrica continuano a scaricare acque fortemente inquinate nel torrente Garbogera che passa sotterraneo alla fabbrica». Si deve arrivare al 1971 prima di un pronunciamento ufficiale da parte del Laboratorio provinciale di igiene e profilassi: «Le acque usate che la società Acna scarica nel Lombra e nel Garbogera persistono fortemente inquinate dal lato chimico e ad alta tossicità da quello biologico. È necessario pertanto che con tutti i mezzi venga ovviato al grave fenomeno di inquinamento, i cui riflessi si ripercuotono anche nei comuni a valle».
La situazione sostanzialmente non cambia in occasione di successivi controlli; all’inquinamento delle acque di superficie sono da aggiungere quello delle falde e dei pozzi, le emissioni gassose e i rifiuti solidi accatastati in buche dentro lo stabilimento e in discariche esterne.
Al riguardo sono emblematiche le indagini condotte nei primi anni Novanta presso la Procura della Repubblica di Monza dal sostituto dott. Alfredo Robledo. Il magistrato, nel corso di un incontro con la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso collegate (17-19 ottobre 1995), ha rilasciato significative dichiarazioni, di cui riportiamo alcuni passi, perché sono evidenti le assonanze di scenario con la situazione di Cengio:
«L’indagine sulla immensa area dell’ex stabilimento Acna, che riguarda i tre comuni di Ceriano, Cesano e Bovisio, è stata iniziata perché si è registrata la presenza di trielina in quantità fisse nell’acqua di falda senza che vi fossero produzioni a monte che potessero giustificarla. L’indagine è iniziata quindi per accertare la fonte di questo inquinamento. Richieste informazioni agli enti pubblici a ciò deputati, varie unità sanitarie locali, comuni, uffici provinciali e regionali, e verificato che nessuno sapeva nulla, si è cercato di risalire autonomamente alla fonte della trielina, che è stata individuata nella sede dell’ex stabilimento Acna [...]. A monte dello stabilimento non c’è traccia di trielina, quindi la provenienza non può che essere quella. Con delle prospezioni specifiche la fonte è stata individuata in gran parte addirittura sotto un attuale stabilimento operativo della BASF e ce n’è una quantità tale da poter ritenere, non lontani dal paradosso, che se non si interviene, colerà per altri 150 anni [...]. Uno dei problemi più gravi è quello delle cosiddette vasche [...]. Da indagini non ancora concluse, ma sulle quali non c’è segretazione, risulta che queste vasche sono state realizzate dall’Acna intorno al 1976.
Questo risulta da una documentazione interna che abbiamo sequestrato, nella quale si evidenzia che fu tolto lo strato di argilla che impermeabilizzava la zona e vi furono gettati dentro questi fanghi intrisi di vari rifiuti. La quantità è stimabile in circa 70 mila tonnellate che, secondo le indagini che abbiamo compiuto, percolano in acqua e rilasciano anche ammine aromatiche. Per le ammine aromatiche [...] addirittura non è previsto un limite di presenza nell’acqua, perché non dovrebbero esserci affatto, in quanto sono pericolosissime e molto cancerogene (è nota la storia del reparto dei diclorobenzeni della fabbrica dell’Acna, nella quale credo siano morti tutti per una malattia specifica provocata da queste sostanze). Anche in questo caso nessuno aveva idea di quale potesse essere la provenienza di queste ammine. Per la verità nei rendiconti degli enti pubblici non c’è traccia di ammine; noi le abbiamo trovate perché ho ordinato una perquisizione a Porto Marghera, nel corso della quale sono stati rinvenuti i brogliacci originali in cui erano indicati i quantitativi specifici di ammine aromatiche trovate nell’acqua raccolta da enti pubblici.
La storia di questi terreni è stata ricostruita giudiziariamente ed è stato stabilito che, a seguito di una serie di cessioni nei passaggi tra diverse società, il proprietario era l’ENI Questi brogliacci davano adito all’individuazione di queste ammine aromatiche con un metodo particolare. Allo stato delle indagini, questi fogli ci risultano trasmessi all’ENI per via gerarchica, ma non sono mai stati trasmessi ufficialmente al Laboratorio di igiene e profilassi di Milano, che pure ha fatto analisi e non ha mai trovato queste tracce. Di fatto c’è traccia della presenza di queste sostanze nell’acqua fin dal 1989 [...]. Siamo andati a fare una verifica con il Corpo forestale nel bosco prospiciente lo stabilimento BASF [...], il bosco è praticamente colorato, nel senso che vi sono rilievi di vernice fino ad un metro e ottanta di altezza rispetto al piano boschivo e ci sono almeno dieci centimetri di penetrazione di pigmenti coloranti nel terreno. C’è stata anche una mutazione della fauna: vi sono lombrichi gialli e rossi e c’è presenza di zanzare giganti anche a gennaio, quindi la microfauna è sicuramente adattata. Questo si è verificato perché, quando c’era dell’acqua in eccesso, veniva invertito il flusso delle acque colorate che, anziché andare al depuratore, venivano fatte tornare indietro; c’è una pendenza – secondo noi realizzata volutamente – che è stata misurata in circa 11 centimetri, lungo la quale l’acqua finiva in un vascone, nel quale veniva aperta una saracinesca e l’acqua veniva buttata direttamente nel bosco e poi nel fiume. Questa parte di acqua non era neanche depurata».
Quel che è emerso a venti anni di distanza era la conferma di ciò che aveva individuato negli anni Settanta il “gruppo omogeneo” costituitosi all’Acna di Cesano Maderno con lo scopo di realizzare un collegamento con gli altri stabilimenti Acna e con le fabbriche che producevano o utilizzavano colori e intermedi contenenti ammine aromatiche, al fine di operare sul terreno della salute, cercando di ampliare l’azione verso il territorio.
L’interrogativo drammatico da cui partiva il Glaar era semplice: «Come è stato possibile che un numero tuttora indeterminato di lavoratori, ma certamente superiore ai 200, abbiano potuto contrarre tumore vescicale all’Acna di Cesano, almeno a partire dal 1934, e morirne, senza che alcun procedimento penale venisse mai aperto, non diremo concluso, nei confronti dei responsabili dell’esposizione dei lavoratori alle sostanze cancerogene utilizzate in fabbrica?».
All’Acna di Cengio, differentemente da altre fabbriche della Montecatini e poi Montedison, il problema della salute non fu mai posto veramente al centro dell’attenzione con vertenze in grado di coinvolgere la maggioranza dei lavoratori, la linea sindacale prevalente fu quella della monetizzazione a basso costo per l’azienda. D’altro canto la completa dipendenza del paese di Cengio dalla fabbrica fece sì che nemmeno fuori dalle sue mura ci fossero proteste e lotte per l’inquinamento atmosferico; identica era la situazione a Cairo Montenotte e a San Giuseppe, dove la Montecatini aveva altri grandi stabilimenti. Per decenni l’inquinamento ambientale, soprattutto atmosferico, in questi piccoli paesi dell’entroterra savonese fu di entità oggi inimmaginabili.
Sul versante piemontese, attraverso il fiume, la presenza inquietante, ossessiva, dell’inquinamento chimico si faceva sentire per molte decine di chilometri. Le proteste e le lotte, che non si manifestavano o venivano subito soffocate dentro lo stabilimento o nelle sue vicinanze, trovarono alimento e continuità nello scontro per il controllo del fiume, l’Acna aveva ottenuto la piena disponibilità delle acque del Bormida. La soluzione adottata a favore dell’Acna fu semplice e radicale: il Bormida di Millesimo venne messo a disposizione della fabbrica. Nell’ultima fase di attività «l’Acna, pur avendo concessione per prelievi di acqua dal Bormida anche superiori ai 4.000 mc/h, ne sottrae circa 2.100 mc/h e li scarica, dopo il consumo di circa il 5%, più a valle con un rapporto, variabile durante le stagioni di circa 1:1 rispetto alla parte restante del corpo idrico». Tale possibilità di usare liberamente l’acqua disponibile si è rivelata preziosa per l’Acna anche sul piano giuridico, dopo l’entrata in vigore della “legge Merli”, le cui tabelle venivano “rispettate” diluendo gli scarichi nelle acque di raffreddamento.
Anche all’Acna di Cengio negli anni Settanta si registrano alcuni segnali di cambiamento, che rientreranno non appena la contestazione dall’esterno si farà massiccia. Mentre in altre situazioni, che coinvolgono innanzitutto l’industria chimica, il fallimento della saldatura fabbrica-territorio, lotte per la salute e per l’ambiente dentro e fuori della fabbrica, fu il frutto della sconfitta delle avanguardie operaie e dei tecnici schieratisi al loro fianco, consumatasi nel passaggio tra gli anni Settanta e Ottanta, nel caso dell’Acna tale saldatura non poté mai essere posta all’ordine del giorno per la debolezza e le divisioni interne della classe operaia e per la barriera culturale che attraverso i decenni era cresciuta tra la Valle Bormida piemontese e Cengio. Esemplare è la vicenda del gruppo “Gente e fabbrica” sorto all’Acna e attivo a Cengio e dintorni negli anni 1977-’78, avente come figura di spicco il prete operaio Angelo Billia, che entra in contatto con il Glaar di Cesano Maderno. “Gente e fabbrica” non supera la ristrutturazione dei primi anni Ottanta e i suoi membri si orientano in direzioni divaricanti: Billia diventa un difensore oltranzista dell’Acna, in prima fila contro i “piemontesi”, altri andranno a costituire i primi nuclei dell’“Associazione per la Rinascita” nell’Alta Valle Bormida.
L’arretratezza degli impianti e la loro pericolosità è segnalata da numerosi incidenti di cui raramente si sa qualcosa fuori dalla fabbrica. Poi, ogni tanto, accadono episodi più gravi, che non si possono tener nascosti, anche perché investono lo stesso ambiente esterno. Così all’Acna di Cengio l’11 maggio 1979 esplode il reparto del cloruro alluminio, una nuvola di fumo invade la vallata, due operai restano uccisi, altri sono feriti gravemente.
Se si considera la questione più delicata, vale a dire il rischio per la salute di natura oncologica, innanzitutto a carico dei lavoratori della fabbrica, è certo che “tutti” a Cengio e nella Valle Bormida sapevano da sempre di tale rischio. E non è nemmeno che mancassero i dati “scientifici”: negli anni 1970-’79 venne condotta una ricerca dell’Istituto Tumori di Genova sulla mortalità nella Valle Bormida ligure. I risultati, non eclatanti, non erano però tranquillizzanti per i lavoratori dell’Acna e gli abitanti di Cengio: tutte le neoplasie risultavano più frequenti nella zona industriale rispetto ai comuni rurali, in particolare i tumori alla vescica e alla mammella erano il doppio e il triplo. Inoltre, i lavoratori dell’Acna avevano una probabilità tre volte più alta rispetto al resto della popolazione di contrarre tumore alla vescica e il rischio saliva a 6,5 volte se erano anche fumatori.
Nondimeno l’azienda sceglie di attestarsi nella produzione di derivati naftalenici, di cui vantava la leadership mondiale, ma proprio i derivati della nitrazione e clorurazione della naftalina sono in genere tossici e in alcuni casi pericolosamente cancerogeni. L’azienda quindi, per mantenere una nicchia di mercato, sceglie una linea produttiva a forte impatto sulla salute e sull’ambiente. Il conflitto, che dall’interno era sempre riuscito a controllare e a soffocare, scoppia improvviso all’esterno, coinvolgendo gran parte della Valle Bormida e assumendo una portata nazionale.
È probabile che la gravità dell’inquinamento storico sia uno dei motivi che hanno indotto la “tecnocrazia” a insistere sul sito Acna di Cengio per la localizzazione del Re.sol. In sostanza, proprio perché l’Acna ha una storia di inquinamento di dimensioni incomparabili – e tenendo conto che la popolazione coinvolta è poco numerosa, al punto che proprio con tale argomento è stata respinta la richiesta di approntare un Registro Tumori per la Valle Bormida – ecco che ad un secolo di distanza il pensiero calcolante trova di nuovo conveniente scegliere l’Alta Valle Bormida per insediare un’“industria strategica” di nuovo tipo.
Tenendo conto degli interessi in ballo, si capisce come il Re.sol. abbia mobilitato non solo vivaci oppositori, che in questa fase comprendono anche i viticultori dell’Albese, ma tenacissimi sostenitori, decisi a non farsi sfuggire un’occasione irripetibile: l’inceneritore ha potuto essere presentato come un impianto ecologico in grado di risolvere l’inquinamento storico e quello prodotto dalla continuazione della produzione, quindi il Re.sol. ha trovato il convinto appoggio delle maestranze, che l’hanno difeso come una necessità per tenere aperta la fabbrica.
Il 20 novembre 1988 inizia le pubblicazioni il giornale “Valle Bormida pulita” con uno scoop clamoroso: il Piano di risanamento per la Valle Bormida, commissionato dal Ministero dell’Ambiente all’Ansaldo, non è altro che la fotocopia letterale, con qualche cancellatura a mano, del Piano per il disinquinamento del Lambro, Olona e Seveso. Con queste premesse inizia la vicenda delle “zone ad alto rischio”, immediatamente individuate come aree ad alto potenziale di lucro.
Nell’autunno del 1989 si sviluppano forti polemiche sul problema delle diossine; il Ministero dell’Ambiente respinge le conclusioni a cui è giunto lo specialista americano prof. Janders e, nel gennaio del 1990, il Ministro Ruffolo decide la riapertura dell’Acna, dopo un blocco di sei mesi. L’Acna era stata chiusa di autorità da Ruffolo il 6 luglio 1989, dopo che l’azienda aveva deciso di propria iniziativa di rientrare in produzione senza attendere che le opere antinquinamento, concordate a fine maggio tra Ministero, Enimont e sindacati, fossero sottoposte a verifica.
La ripresa dell’attività produttiva, anche a ritmo ridotto, determina un nuovo forte impatto ambientale attraverso le emissioni dei 95 camini dell’Acna, i dieci lagoons e i reflui immessi nel fiume previo trattamento e diluizione. Uno dei motivi per cui gli impianti funzionano a singhiozzo deriva dall’impossibilità di trattare i liquami se gli impianti vanno a pieno regime. Nondimeno gli “stabellamenti” rispetto a quanto previsto dalla Legge Merli sono frequenti, a partire dal parametro sulla temperatura dell’acqua.
La tesi del Ministero dell’Ambiente, chiaramente espressa a partire dal 1990 (3 ottobre 1990, Ruffolo alla VII Commissione Ambiente della Camera) è che l’Acna non inquina più, è riuscita a fermare il percolato e ad abbattere i microinquinanti.
L’Associazione per la Rinascita sostiene esattamente il contrario e afferma che nel 1991 sono finite in Bormida quasi tre tonnellate di solventi clorurati (tricloroetano, tetracloroetilene, trielina), notevoli quantità di 1.2.4. triclorobenzene, nonché di clorobenzene e dicloroanilina; nelle acque del fiume è poi presente una varietà di microinquinanti, tra cui benzene, anilina, cloroanilina, diclorobenzene, cloronitrobenzene, betanaftolo, fenolo, antrachinone, dimetilchinossalina, nitrobenzene, nitroanilina, naftalene, 2.6.dinitrotoluene, clorofenolo, nonché composti solfonati, e viene considerata possibile la presenza di diossine e furani. In definitiva, sono presenti le sostanze inquinanti che da decenni hanno viaggiato lungo il fiume e nelle falde, anche se adesso in quantità minori.
La questione delle diossine è una delle più controverse, anche per la posta simbolica in gioco. È difficile negare la presenza di composti cloroderivati (precursori della diossina), poi però le analisi ufficiali, come nel caso delle ricerche epidemiologiche, si fanno vaghe, non escludono del tutto, ma minimizzano; la conclusione ricorrente è un po’ questa: il rischio c’è, ma è accettabile. Così nel giugno del 1991 un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità conferma sì la presenza di diossina e furani, ma in percentuali che rientrano o sono vicine ai “limiti massimi tollerabili”.
Nel gennaio 1992 vengono resi noti i risultati di una “Indagine epidemiologica in Valle Bormida” commissionata dalla Regione Piemonte alla Cattedra di Epidemiologia dei Tumori Umani e al Registro Tumori dell’U.S.S.L. n.1 di Torino, nonché all’Istituto Tumori di Genova per conto della Regione Liguria. Gli esiti sono “tranquillizzanti”; addirittura i casi di tumore della vescica tra i dipendenti Acna sono inferiori a quelli attesi. Un risultato sconcertante che smentiva la cancerogenità di sostanze classificate come tali da decenni.
Eppure, con esplicito riferimento alla Valle Bormida, era stato messo in evidenza che «sono note a tutti le difficoltà e le incertezze che circondano, in questi casi, la possibilità di identificare in modo incontrovertibile un nesso causale tra l’esposizione a sostanze chimiche ambientali e l’insorgenza di patologie croniche. Tali incertezze non giustificano certo l’assoluzione dei responsabili degli episodi di inquinamento; proprio le difficoltà nell’accertare i nessi causali sul piano epidemiologico [...] impongono un atteggiamento di grande cautela prima di emettere un verdetto». E inoltre «il problema della definizione di criteri di accettabilità dei rischi è particolarmente acuto in settori – come quello della cancerogenesi da esposizioni lavorative o ambientali – in cui l’esposizione ad agenti cancerogeni non è oggetto di scelta ma è un dato di fatto che interessa – contro la loro volontà – specifici sottogruppi della popolazione». Al di là del dibattito interno alla epidemiologia e sulle tematiche etiche ed ecologiche che sorgono non appena si tocca il problema dei criteri “oggettivi” per definire i rischi accettabili connessi alla tecnologia e ai suoi sviluppi, è necessario sottolineare che una ricerca storica su sanità e malattia non potrà certo basarsi come unica fonte sulle certificazioni di morte desunte dai dati Istat (come nel caso dell’indagine di cui sopra).
La mancanza di un “Registro tumori” e di seri e continuativi studi epidemiologici sui lavoratori dell’Acna e sulla popolazione interessata dall’inquinamento, fa sì che una delle pagine principali della vicenda Acna-Valle Bormida non potrà mai essere analiticamente e filologicamente ricostruita in ogni sua parte. Si sa comunque con sufficiente precisione che cosa l’Acna ha prodotto per decenni e quali sostanze ha utilizzato. Tra gli inquinanti ufficiali segnalati dalla stessa azienda e dal Ministero dell’Ambiente sono da ricordare almeno clorobenzene, nitrobenzene, triclorobenzene, cloronitrobenzene, triclorofenoli.
Alla ripresa dell’attività produttiva, dopo le chiusure dell’88 e dell’89, vengono rimessi in funzione a Cengio i numerosi reparti di cui si compone la fabbrica, tra cui Tobias-Isogamma, Acido Bon, Sulzer, Oleum, Maf, Betanaftolo, Ftalocianine.
Nel 1991 un monitoraggio effettuato dalla Regione Piemonte registra un dato fortemente anomalo: «Nel corso di una piena del marzo 1991, il quantitativo di inquinanti è aumentato di circa dieci volte, raggiungendo valori straordinariamente elevati: ciò potrebbe essere attribuito o a trascinamento di rifiuti depositati nelle discariche poste accanto al letto del fiume, oppure a un volontario aumento di scarico attuato in concomitanza della piena che avrebbe diluito la concentrazione».
Nella primavera del ’92 l’Enichem stipula un accordo con la “Indian Dyestuff” per la realizzazione, in India, di uno stabilimento per la produzione di ftalocianina. A Cengio il reparto ftalocianina, balzato all’attenzione della cronaca anche per un’esplosione avvenuta nel febbraio del ’91, era stato posto sotto osservazione per l’impiego di 1.2.4 triclorobenzene come solvente, ma gli esperti ministeriali avevano escluso un rapporto con le diossine, di cui il triclorobenzene è un noto precursore, mancando le condizioni (temperatura, etc.).
“Voci” di versamenti nel fiume di triclorobenzene sono ripetutamente raccolte in loco sino a che nel ’92, nel corso dell’Operazione Fiumi organizzata dalla Lega Ambiente, vengono registrati nel Bormida tassi di triclorobenzene che vanno da 550 a 1.750 volte i limiti consentiti. La dirigenza Acna esclude rischi e pericoli, nondimeno si punta alla chiusura del reparto o meglio al suo trasferimento in India, ciò, per altro, è dovuto principalmente ad una disposizione comunitaria che prevede il divieto di utilizzo del triclorobenzolo.
In un documento della Regione Piemonte si può leggere che “non esiste ad oggi alcuna indagine analitica del materiale stoccato (nei) lagoons, che identifichi specialmente le stratificazioni più antiche. In alcuni di questi invasi è certa la presenza di significative quantità di cloruri, derivanti da lavorazioni storiche ed attuali, che trasformano nitroclorobenzoli in nitrocloroaniline.”.
Intanto nell’estate del ’94, da un’inchiesta della Procura di Savona emergono documenti riservati interni che rinnovano tutti i sospetti sulla fabbrica di Cengio. In un documento interno di Enimont del 25 ottobre 1989, si possono leggere affermazioni di questo tenore: «Il piano di investimento deciso con il Ministero per l’Ambiente non porterà ad una soluzione completa e serena del problema [...]. Emergono gradualmente problematiche più profonde e incertezze prima non esplicite. 1. L’analisi del suolo appare tanto scarsa da far pensare che l’inquinamento sia praticamente dappertutto... 2. In certe aree vi sono fusti interrati, però non è chiaro dove e quanti sono... 3. La presenza di un forte accumulo di sostanze inquinanti fuori dal recinto dello stabilimento è emersa solo in un secondo tempo [...]. 6. Dall’indagine epidemiologica non si percepisce bene quale sia l’influenza di Acna sulla salute... Non è sicuro che Acna sia sempre limpida con gli interlocutori esterni. Questo mina la credibilità non solo di Acna ma anche di Enimont [...]. Raccomandazioni. 1. Trovare metodi per analisi corretta sottosuolo e azienda primaria specializzata. 2. Fare una riverifica di tutto il progetto Re.sol. 3. Chiarire gli aspetti epidemiologici al di là di ogni dubbio. Si propone di incontrarsi con EPA, data la grande esperienza che ha in questo campo. 4. Realizzare una politica di comunicazione basata sulla trasparenza. 5. Sviluppare una strategia di bonifica...».
La reale situazione dell’Acna, dopo innumerevoli dichiarazioni pubbliche in senso contrario da parte dei vertici aziendali e delle autorità istituzionali, emerge crudamente da una lettera del presidente Di Mattia a uno dei massimi dirigenti dell’Enichem: «Milano 6 agosto 1992. Documento rigorosamente riservato con preghiera di distruzione dopo visione. Da: A. Di Mattia a: dott. G. Parriello... esiste l’imminente pericolo che possa essere accertata nella nostra produzione di ftalocianina la presenza di diossina (policlorobifenili e cloro diossina) derivanti dall’uso, nel processo, del solvente triclorobenzolo. Le dichiarazioni relative all’assenza di questi prodotti ci vengono richieste ed ovviamente non possiamo rilasciarle. Abbiamo il know how per eliminare il problema e ciò corrisponde alla sostituzione del solvente triclorobenzolo con il solvente alchil aromatico, ma le condizioni di esercizio impongono modifiche all’impianto. Data la gravità della situazione e delle conseguenze non posso che decidere nel seguente modo e con la massima tempestività...». Seguono indicazioni per interventi immediati del costo di un miliardo che avrebbero ridotto del 50% la capacità produttiva dell’impianto, ma eliminato il «gravissimo problema incombente».
Nel frattempo l’incubo di una alluvione che investa lo stabilimento si riaffaccia nel novembre del 1994. A Cengio si scampa per un soffio alla catastrofe con la Bormida che lambisce pericolosamente il sedime dello stabilimento dell’Acna, mentre all’interno i lagoons ed il sottosuolo, costituito prevalentemente da rifiuti industriali tossici e terre contaminate, sono inzuppati d’acqua.
Dopo la chiusura dell’Acna a fine secolo,lLa stima dei residui industriali da bonificare è di tre milioni di metri cubi di inquinanti, a cui sono da aggiungere 300.000 metri cubi di reflui stoccati nei lagoons, per i quali l’Acna aveva chiesto la costruzione dell’inceneritore.
Le decisioni assunte e le azioni principali messe in atto prevedono il contenimento in loco del grosso degli scarti di produzione (“bare di cemento”) mentre i restanti residui velenosi vengono trasportati per ferrovia nella cave di salgemma della ex Germania dell’est (miniera di Teutshental, zona di Lipsia).
La storia dell’Acna come fabbrica chimica è finita da tempo. La storia del suo impatto sull’ambiente è destinata a durare a lungo.
Questa cronologia sintetica dei conflitti legati all’ambiente e alla salute attorno alla stabilimento dell’Acna di Cengio è sicuramente incompleta e suscettibile di integrazioni. Essa comunque ci consente di cogliere alcuni dati rilevanti: