Industria e ambiente

Per un atlante storico dell’impatto sul territorio dell’industrializzazione diffusa e intensiva

Sito di interesse nazionale di Fidenza (Parma)

Inquadramento storico e territoriale

Cronologia

Data iniziale: 1888
Data finale: 2003

Localizzazione geografica

Regione: Emilia Romagna
Provincia: Parma
Comune: Fidenza, fino al 1927 Borgo San Donnino.

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Insediamento produttivo

Nomi delle industrie operanti nell’insediamento produttivo:
1. Distilleria di catrame, nata nel 1888, poi Cledca, Conservazione Legno e Distillazione Catrame, dal 1929 ed infine Carbochimica, dal 1972 fino al 2003;
2. Campanini Tito & C., fabbrica di acido solforico e concimi fosfatici, nata nel 1908, assorbita dalla Montecatini nel 1928 e operante fino alla seconda guerra mondiale;
3. nella stessa area della ex Campanini Tito & C.,  Cip, Compagnia Italiana Petroli, per la produzione del piombo tetraetile, dal 1950 al 1970.




Distilleria di catrame.

Proprietà

La distilleria di catrame sorse ad opera del cav. Sigismondo Vitali, in seguito ad una convenzione stipulata il 2 febbraio 1888 con il Comune di Borgo San Donnino, il quale cedeva gratuitamente il terreno; dal 1896  subentrò la proprietà della Ditta Rocca e Baratti Distillerie di catrame che possedeva un analogo stabilimento a Milano; nel 1906 la Ditta Rocca e Baratti si fuse con la società anonima per la Conservazione del Legno Brevetti Giussani di Milano costituendo la Società Anonima Conservazione del Legno e Distillazione di Catrame; nel 1929 la Società Anonima Conservazione del Legno e Distillazione di Catrame entrò a far parte del gruppo Società italiana per il gas - Italgas, controllato dal finanziere torinese Rinaldo Panzarosa, assumendo la denominazione Conservazione Legno e Distillazione Carbone S. A. – Cledca; la Cledca rimase nel gruppo Italgas anche dopo il crollo dell’impero di Panzarosa, nel 1931, che lo costrinse a cedere molte aziende alla Montecatini; nel 1969, in seguito ad una ristrutturazione dell’Italgas, la Cledca entrò a far parte della Divisione Coke e Carbochimica; nel 1972 le attività di tipo carbochimico dell’Italgas vennero cedute e fuse con la Prada Chimica Spa, costituendo una nuova società Carbochimica italiana, con stabilimenti, oltre a Fidenza, a Crespiatica, Mestre, Livorno, Porto Marghera e Trento; nel 1985 la Carbochimica venne acquisita dalla società belga Nv Sopar, a sua volta controllata dalla società tedesca Ruetgerswerke e nel 1992 assunse il nome di Ruetgers Vft Spa; nel 1993 la società tornò in mani italiane e riprese la vecchia ragione sociale di Carbochimica Spa, con sede legale a Livorno; il 28 marzo del 2000  l’assemblea degli azionisti deliberò la messa in liquidazione della Carbochimica; in seguito alla cessazione dell’attività, avvenuta dopo ulteriori passaggi di proprietà nel novembre 2003,  con atto del 16 febbraio 2005, l’area industriale dismessa è stata acquisita a titolo gratuito dal Comune di Fidenza. 

Descrizione

Lo stabilimento si collocò in un’area immediatamente a nord del centro storico, oltre la linea ferroviaria Milano - Bologna, che la separava dalla città, posta dunque in prossimità della stazione, necessaria per il collegamento ferroviario per il trasporto delle materie prime e dei prodotti, a  non più di 200 metri in linea d’aria da piazza Garibaldi, cuore del centro storico cittadino. L’area occupata dalla Carbochimica è di circa 80.000 m2.

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Settore produttivo

(riferimento alle categorie ISTAT)

C Attività Manifatturiere
20 Fabbricazione di prodotti chimici
20.14 Fabbricazione di altri prodotti chimici di base organici
20.30.00 Fabbricazione di pitture e vernici, smalti e lacche

  • fabbricazione di solventi e diluenti organici composti

20.53 Fabbricazione di oli essenziali

Storia produttiva

La fabbrica, fin dalle origini, si collocava in un settore d’avanguardia: infatti la distillazione del carbone verso la fine dell’Ottocento era un processo fondamentale per la produzione di importanti ed essenziali materie prime per alcuni settori dell’industria chimica, quelli dei coloranti e degli esplosivi e quelli dei farmaci organici, che erano allora in tumultuoso sviluppo. Il catrame è un sottoprodotto della distillazione secca del carbone, processo che consiste nel riscaldare in assenza di aria il carbone a temperature comprese tra i 900 e i 1200°C. Le origini della distillazione secca, risalgono al diciottesimo secolo, quando, durante la rivoluzione industriale, il procedimento fu utilizzato per produrre il carbon coke destinato agli altiforni delle industrie siderurgiche. Successivamente, ai primi dell'Ottocento, la distillazione secca del carbone venne utilizzata nelle officine del gas per ottenere il "gas di città" impiegato nell'illuminazione notturna. In entrambi i casi come sottoprodotto della distillazione si otteneva il catrame, un liquido scuro, denso e viscoso costituito principalmente da idrocarburi aromatici e fenoli. Per lungo tempo il catrame fu impiegato solo per la conservazione del legno: dalla sua distillazione si otteneva un olio, olio di creosoto, che serviva per impregnare le traversine delle ferrovie e i pali del telegrafo. Fu solo nella seconda metà dell'Ottocento che, in seguito agli studi di A. W. Hofinan (1818 - 1892) e della sua scuola, si comprese l'importanza del catrame come materia prima per l'industria chimica, in particolare per quelle produzioni - coloranti, esplosivi, farmaci - che si stavano sviluppando in tale periodo. Dalla distillazione del catrame si possono ottenere varie frazioni: olio leggero, che distilla a meno di 170°C, da cui si ricavano benzene, toluene e xileni; oli medi, che distillano da 170 a 230°C e che vengono a loro volta distinti tra olio di catrame e olio di naftalina e che sono fonte di fenoli e naftalina; olio di creosoto, che distilla tra i 230 e i 270°C. ed è la frazione utilizzata per l'impregnazione del legno; olio di antracene, che distilla tra i 270 e i 350°C e da cui è possibile ottenere nerofumo; peci, che distillano tra i 350 e i 450°C e che vengono utilizzate tra l'altro per la produzione di elettrodi.   Fra i prodotti della distillazione del catrame vanno considerate anche le molecole azotate anilina, piridina, chinolina, molto importanti come materie prime per sintesi chimiche.     

I prodotti della distillazione del catrame.

Resta una frazione indistillabile anche a bassa pressione, catrame residuo, utilizzato per la produzione di asfalti e come impermeabilizzante. Una parte di queste sostanze, dopo la seconda guerra mondiale, è stata prodotta anche tramite processi petroliferi e petrolchimici, che hanno reso antieconomica la loro produzione a partire dal carbone. Uno dei prodotti di cui è rimasta vantaggiosa la produzione a partire dal carbone è la naftalina che viene principalmente utilizzata per la produzione di antitarmici (naftalina sublimata in palline e in anelli), additivi per cemento, prodotti ausiliari per l'industria tessile e conciaria e intermedi chimici quali anidride ftalica, naftoli, nitronaftalina, acido ftalico. Tra questi ha assunto grande importanza, in particolare dal secondo dopoguerra, l'anidride ftalica, che trova il proprio principale impiego nella produzione di ftalati, alcoli aventi tra i quattro e i dieci atomi di carbonio; gli ftalati sono i più diffusi plastificanti del PVC, mentre quantità significative entrano anche nella produzione di resine poliestere insature e alchiliche e di coloranti organici.
All’inizio, l’arretratezza della chimica italiana, tuttavia, faceva sì che solo alcuni dei potenziali prodotti della distilleria avessero uno sbocco. Così nei primi anni di vita ci si limitò a produrre olio di creosoto e di antracene, destinato all’impregnazione del legno a fini conservativi, impiegato per le traversine dei binari, e quindi in espansione con lo sviluppo della rete ferroviaria, e pece impiegata come legante della polvere di carbone per la produzione di mattonelle combustibili. Durante la prima guerra mondiale si sviluppò la produzione del nerofumo, derivato dall’olio di antracene, e soprattutto della naftalina, utilizzata per la fabbricazione degli esplosivi, cosicché la fabbrica diventò ausiliaria per fini bellici. Negli anni Venti la distillazione si indirizzò soprattutto per ricavarne acido fenico (fenolo), cresoli e naftalina, cui si affiancarono negli anni Trenta la raffinazione del benzolo o benzene greggio e la produzione di catrami per l’asfalto stradale.

Inserzione pubblicitaria della CLEDCA in occasione della I Mostra Industriale, Agricola e dell'Artigianato di Fidenza - 1935.

Lo stabilimento, essendo sede di produzione di sostanze strategiche ai fini bellici, come il benzolo, durante la seconda guerra mondiale venne di nuovo militarizzato e subì diversi bombardamenti in particolare il 15 dicembre del 1944 ed il primo gennaio 1945.

Localizzazione delle bombe cadute all'interno del perimetro della fabbrica.

Nel secondo dopoguerra vennero rinnovati gli impianti per la distillazione del catrame, con un nuovo laboratorio per il controllo della produzione e tra il 1952 e il 1954 si costruì un impianto per il nerofumo Furnace Blacks, destinato ad essere utilizzato nell’industria della gomma e si costruì un impianto continuo per la rettifica del benzolo. Gli anni Sessanta rappresentarono la fase di maggior sviluppo, anche occupazionale, con quasi 200 addetti: erano circa 60 i diversi prodotti, alcuni di questi pronti alla commercializzazione anche al dettaglio, come la naftalina in palline.  Al periodo d’oro seguì un declino pressoché inarrestabile, determinato dalla concorrenza della petrolchimica in grado di ricavare dai derivati del petrolio a minor costo molti dei prodotti della distillazione del carbone, che quindi l’azienda fu costretta in tempi successivi ad abbandonare. A partire dal 1972 la distillazione del catrame e del benzolo vennero progressivamente abbandonate, mentre la produzione di nerofumo era cessata già da qualche anno. Quindi la naftalina, non più prodotta in palline, veniva venduta in scaglie destinate ad ulteriori lavorazioni, in particolare alla produzione di anidride ftalica. L’insieme di queste innovazioni, accompagnate dalla completa automazione dell’impianto di distillazione, comportò una drastica riduzione del personale impiegato nello stabilimento. Gli anni Novanta segnarono la lenta agonia della fabbrica, costretta negli ultimi tempi a produrre sottocosto per non perdere quote di mercato, fino alla messa in liquidazione nel 2000. In realtà ci fu ancora un tentativo di rianimazione dell’azienda: la nuova proprietà subentrata nell’agosto 2000, sfruttando l’impianto di depurazione e bonifica della falda che aveva dovuto installare dopo la scoperta,  avvenuta casualmente nel 1991, del grave inquinamento sottostante la fabbrica, aveva progettato di trasformarsi gradualmente in piattaforma per il trattamento di rifiuti. Infatti, accanto alla ripresa della produzione d’olio naftalinoso e naftalina e di acidi fenici, l’azienda chiese di smaltire nel proprio impianto di bonifica anche rifiuti liquidi a base acquosa per conto terzi ed altri provenienti dalla distillazione del glicol dietilenico; ma soprattutto aveva progettato la costruzione di un inceneritore per pneumatici esausti, impianto che incontrò la netta e insuperabile opposizione sia della cittadinanza che delle istituzioni. Venendo meno questa nuova possibilità di business, l’azienda andrà verso la definitiva chiusura avvenuta nel novembre 2003.

Distribuzione serbatoi e cisterne interrati (anno 2000).


Campanini Tito & C., fabbrica di acido solforico e concimi fosfatici.

Proprietà

Dalla nascita, 1908, fu controllata da Tito Campanini & C. finché, nel 1928, la società fu assorbita dal gruppo Montecatini, per cessare definitivamente la propria produzione negli anni Quaranta.

Descrizione

Lo stabilimento si collocò nell’area già precedentemente descritta, immediatamente a nord del centro storico, ubicandosi su un terreno adiacente, ad ovest, della Distilleria di carbone, quindi tra la linea ferroviaria a sud e l’attuale via Marconi a nord, in un’area pari a circa 30.000 m2.

Settore produttivo

(riferimento alle categorie ISTAT)

C Attività Manifatturiere
20 Fabbricazione di prodotti chimici
20.15 Fabbricazione di fertilizzanti e composti azotati

Storia produttiva

La fabbrica, subito dopo l’apertura, conobbe un periodo di intensa attività riuscendo a produrre fino a sessantamila q.li di perfosfati e venticinquemila q.li d’acido fosforico l’anno, occupando 50 operai che salivano a 80 nei momenti di massima attività. Dal 1913 l’azienda continuò l’attività con alti e bassi. Il cuore produttivo era, da un canto, l’impianto di produzione dell’acido solforico con le camere di piombo e, dall’altro, il trattamento delle fosforiti, appunto, con acido solforico al 65%. Il processo delle camere di piombo è il più antico per la produzione dell’acido solforico, utilizzato fino agli anni Quaranta del secolo scorso, e partiva dalla combustione di piriti o zolfo, che rappresentano la materia prima, producendo prima biossido di zolfo che veniva ulteriormente ossidato da vapori nitrosi (NO + NO2) dando origine, in reazione con l’acqua, all’acido solforico, H2SO4.
Le fosforiti presenti in natura contengono il fosfato tricalcico, Ca3(PO4)2,  che però, essendo insolubile in acqua è assimilabile molto lentamente dalle piante, a differenza del fosfato monocalcico, Ca(H2PO4)2, che è solubile. Da qui la necessità di trattare le fosforiti con acido solforico: Ca3(PO4)2 + 2H2SO4 + 5H2O → Ca(H2PO4)2*H2O +2CaSO4*2H2O




Cip, Compagnia Italiana Petroli.

Proprietà

La società fu fondata dai fratelli Nando e Pietro Paglierini nel 1950 ed ha operato fino al 1970, anno del suo fallimento. Anche l’area ex Cip venne acquistata dal Comune di Fidenza per 40 milioni di lire dalla curatela fallimentare il 14 settembre 2001.

Descrizione

Lo stabilimento si collocò nell’area precedentemente occupata dalla Campanini Tito & C.

Settore produttivo

(riferimento alle categorie ISTAT)

C Attività Manifatturiere
20 Fabbricazione di prodotti chimici
20.14 Fabbricazione di altri prodotti chimici di base organici

Storia produttiva

La Cip ha prodotto principalmente piombo tetraetile che veniva utilizzato come additivo antidetonante delle benzine. Il piombo tetraetile, Pb(C2H5)4, è un liquido incolore che bolle a 200°C decomponendosi e solidifica a – 180°C. Nei motori a scoppio, durante la combustione, esso forma ossido di piombo che ha azione corrosiva: per ovviare a questo problema, il piombo tetraetile veniva impiegato in miscela con bromuro e cloruro di etile in modo che, anziché piombo, si formassero bromuro e cloruro di piombo volatili che venivano eliminati con i gas di scarico.  L’inconveniente era che questi gas contenenti piombo erano incompatibili con i possibili catalizzatori da montare sulle marmitte, perché li avrebbero rapidamente saturati. Per oltre mezzo secolo, dunque, è stata dispersa, in particolare nell’aria ambiente delle città, una quantità ingente di piombo, altamente tossico, inutilmente. Sì, inutilmente, perché la cosiddetta “benzina verde”, ad esempio addizionata con alcol etilico, era ben nota fin dagli anni Venti: ma l’etanolo non era brevettabile a differenza del piombo tetraetile, “inventato” e brevettato dal Centro ricerche di  General Motors & Standard Oil, che l’hanno imposto al mondo intero per esclusive ragioni di business. Una brutta storia in cui un ruolo non secondario ebbero alcuni tossicologi americani che affermarono la sostanziale innocuità del piombo tetraetile se impiegato nelle benzine per i motori a combustione interna
Il piombo tetraetile veniva prodotto industrialmente, facendo reagire una lega di piombo e sodio con bromuro o cloruro di etile (la presenza del sodio rende reattivo il piombo):
4 PbNa + 4C2H5Cl → Pb(C2H5)4 + 4NaCl + 3Pb
Il processo di produzione comprendeva la preparazione della lega e la reazione tra lega e cloruro di etile; il prodotto che usciva dai reattori veniva poi distillato in corrente di vapore per separare il piombo tetraetile, mentre le acque di raffreddamento (prodotto di scarto contenente acqua, piombo e cloruro di etile) venivano convogliati in separatori a setti, detti piscine. Dai reattori uscivano anche residui in forma di fanghi che contenevano un'elevata concentrazione di piombo. Questi fanghi erano raccolti in vasche e successivamente inviati ai forni rotativi per l'incenerimento. Il piombo recuperato in tale processo veniva poi riutilizzato. Nei momenti di scarsa disponibilità sul mercato del cloruro di etile, si procedeva anche alla sua sintesi per reazione diretta dell'etanolo con l'acido cloridrico.
La temperatura del processo andava accuratamente controllata, in quanto il piombo tetraetile si decompone in maniera apprezzabile già a 100°C: la decomposizione esotermica, una volta innescata, può assumere andamento esplosivo. Molti incidenti verificatisi nei primi impianti (e non solo in quelli) erano dovuti all' eccessiva temperatura. Il controllo veniva realizzato sottraendo calore mediante l'evaporazione di parte del cloruro di etile alimentato in eccesso; dopo condensazione il cloruro veniva riciclato. Una volta separato per distillazione in corrente di vapore e purificato, il piombo tetraetile veniva miscelato con bromuri e cloruri alchilici, coloranti e stabilizzanti così da ottenere il prodotto commerciale denominato in Italia etilfluido.
Saltuariamente e come attività secondaria, a partire dal 1953, venivano prodotti dalla Cip anche mercaptani, in particolare mercaptano butilico, partendo da alcol butilico per ottenere bromobutano che veniva fatto reagire con solfidrato di potassio o di sodio:
C4H9Br + KHS → KBr + C4H9SH
Il mercaptano butilico è un liquido infiammabile di odore molto sgradevole ed intenso che veniva utilizzato per denaturare l'alcol etilico.



Mappa dell'area della C.I.P. con la localizzazione dei principali impianti.

Salute e sicurezza in fabbrica

Vediamo innanzitutto le problematiche tossicologiche della Distilleria di carbone e catrame e della Carbochimica. In generale i derivati della distillazione del carbone sono sostanze nocive per la salute umana. Peraltro lo stesso carbone minerale, essendo residuo fossilizzato di materiali lignei e vegetali, contiene sempre, oltre allo zolfo, maggiori quantità rispetto ai derivati del petrolio di metalli pesanti (quali nichel, cadmio, piombo, mercurio, cromo e arsenico) e di alogeni, in particolare fluoro, cloro e loro composti. Sia la combustione che la distillazione, inevitabilmente, volatilizzano, in parte, questi elementi tossici, cancerogeni per l’uomo, come i metalli pesanti. In generale, tra i derivati della distillazione, troviamo poi gli IPA, idrocarburi policiclici aromatici. Gli IPA hanno noti effetti negativi sull’ambiente, sulla salute umana ed animale, come tossicità evidente per alcuni organismi acquatici ed uccelli, alta tossicità cronica per la vita acquatica, contaminazione dei raccolti agricoli.
Diversi IPA sono stati classificati dall’Agenzia internazionale di ricerca sul cancro dell’Oms, Iarc  come "probabili" o "possibili cancerogeni per l'uomo", mentre il benzo(a)pirene è stato  riclassificato nel 2008 nel gruppo 1 come "cancerogeno certo per l'uomo".Tra i cancerogeni certi per l'uomo, oltre ad esso, vi sono evidenti agenti ad alto contenuto di IPA come i processi per la distillazione dei catrami minerali. Tra gli IPA comunemente presenti nelle matrici ambientali, vi sono il benzo(a)pirene, il benzo(b)fluorantene, il benzo(k)fluorantene, l'indeno(1,2,3-c,d)pirene, il benzo(a)antracene, il benzo(j)fluorantene ed il dibenzo(a,h)antracene. Anche se esistono più di cento diversi IPA, quelli più imputati nel causare dei danni per la salute dell’uomo e degli animali sono: l'acenaftene, l'acenaftilene, l'antracene, il benzo(a)antracene, il dibenzo(a,h)antracene, il crisene, il pirene, il benzo(a)pirene, l’indeno(1,2,3-c,d)pirene, il fenantrene, il fluorantene, il benzo(b)fluorantene, il benzo(k)fluorantene, il benzo(g,h,i)perilene e il fluorene. Pur essendo lo studio di queste miscele particolarmente complesso, è stato comunque dimostrato che l’esposizione alle miscele di IPA comporta per fenomeni di azione sinergica, un aumento dell’insorgenza del cancro, soprattutto in presenza di benzo(a)pirene. L'attività cancerogena è dovuta ai prodotti del metabolismo di queste sostanze, quindi sono sostanze pre-mutagene. Il benzene o benzolo, inoltre,  è una sostanza classificata sicuramente cancerogena per l’uomo, nota per questo fin dal 1928, e che colpisce in particolare organi emopoietici (organi deputati alla produzione delle cellule del sangue, come il midollo osseo e la milza). Per quanto riguarda il nerofumo, la Iarc lo ha valutato  probabilmente cancerogeno, mentre l'esposizione a breve termine ad alte concentrazioni di nerofumo in polvere, può causare disagio al tratto respiratorio superiore, attraverso irritazione meccanica. Infine, per la  naftalina, prodotta in certi periodi in grande quantità, occorre annotare che un’esposizione eccessiva provoca la distruzione dei globuli rossi e produce sintomi di nausea, vomito, diarrea, passaggio di sangue nelle urine e pallore della pelle; inoltre la naftalina è un sospetto cancerogeno.
Per quanto riguarda la Cip, il problema tossicologico più importante e severo è rappresentato dal piombo disperso in grandi quantità nell’ambiente di lavoro, ma anche nell’ambiente circostante alla fabbrica, e più in generale, attraverso l’impiego del piombo tetraetile nelle benzine.
Quando negli Usa agli inizi degli anni Venti fu iniziata la produzione di piombo tetraetile  un gruppo di operai fu immediatamente colpito da intossicazione acuta, con 15 decessi in due anni. Il piombo è un metallo noto dall’antichità ed è relativamente abbondante sulla crosta terrestre (13gr/ton, al 36° posto), dove si trova soprattutto nel minerale galena o solfuro di piombo, PbS.       Il piombo figura al 2° posto nella lista delle sostanze pericolose indicate dall’Atsdr (Agency for Toxic Substances and Disease Registry) nordamericana nel 1999. La nocività di questo metallo è nota da molto tempo, specie nelle sue manifestazioni acute (colica saturnina). Tuttavia, recentemente, come è accaduto per numerosi altri agenti inquinanti, la dose considerata critica è stata notevolmente abbassata. Fino a circa trent’anni fa, l’avvelenamento cronico da piombo era definito dalla presenza di una dose superiore a 80 µg/dl nel sangue, mentre attualmente viene considerata “alta” una dose di Pb di 30 µg/dl e potenzialmente nocive, specie nello sviluppo, quantità uguali o superiori a 10µg/dl (0.1ppm). Assorbito essenzialmente attraverso la respirazione e la nutrizione, il piombo non viene metabolizzato, ma per larga parte escreto, mentre il resto (circa il 20%) si distribuisce nei tessuti e in particolare: nel sangue, ove circola quasi esclusivamente negli eritrociti; nei tessuti minerali (ossa e denti), ove si accumula; nei tessuti molli (reni, midollo osseo, fegato e cervello). La presenza di Pb nel sangue, all’interno dei globuli rossi e in massima parte legato all’emoglobina, provoca anemia, che deve però considerarsi non un sintomo, ma una manifestazione tardiva dell’avvelenamento da Pb. Attraverso il sangue, il Pb si distribuisce in tutti gli altri tessuti. Per la sua capacità di “imitare” il calcio, e quindi soprattutto in caso di insufficiente assunzione di calcio, il piombo si accumula nelle ossa e vi costituisce una componente stabile. Tale componente può essere mobilizzata e quindi rientrare in circolo nel sangue, in particolari stati fisiologici di stress (gravidanza, allattamento, malattie), ma anche come conseguenza di un accresciuto apporto di calcio nella dieta. Questo accumulo stabile di Pb nelle ossa rende molto lenta la guarigione dalla piombemìa, anche dopo un completo allontanamento dall’agente tossico. Il piombo è in grado di danneggiare praticamente tutti i tessuti, in particolare i reni e il sistema immunitario. La manifestazione più subdola e pericolosa dell’avvelenamento da piombo è quella a carico del sistema nervoso. Negli adulti il danno da piombo si manifesta soprattutto con neuropatia periferica, che si ritiene dovuta a un processo di demielinizzazione delle fibre nervose. L’esposizione intensa ad elevate dosi di piombo (da 100 a 200 µg/dl) provoca encefalopatia, i cui sintomi sono: vertigini, insonnia, cefalea, irritabilità e successivamente crisi convulsive e coma. La neuropatia da piombo colpisce soprattutto nello sviluppo, con turbe comportamentali e danni cognitivi. Studi epidemiologici hanno mostrato una forte correlazione fra il livello di piombo nel sangue e nelle ossa e scarse prestazioni in prove attitudinali (test QI o psicometrici); una simile correlazione è stata accertata anche in studi comportamentali su animali esposti al piombo subito dopo la nascita. Il processo di apprendimento avviene attraverso la formazione e il rimodellamento delle sinapsi e l’effetto tossico del piombo su questo processo suggerisce che questo metallo danneggi specificamente la funzione sinaptica. La particolare vulnerabilità dei bambini è accresciuta dal fatto che essi sono particolarmente esposti all’assunzione di piombo, per esempio se nutriti con latte artificiale preparato con acqua ricca di piombo, ovvero per ingestione di frammenti di vernice al piombo. Il piombo è stato classificato dalla Iarc come probabilmente cancerogeno per l’uomo (classe 2A). Con tutta evidenza, il piombo è davvero una brutta bestia per la salute umana. E nel corso di oltre mezzo secolo, possiamo solo immaginare quali siano stati gli effetti di una diffusione in ambiente, negli Usa ed in Europa, e quindi in tutto il mondo, di milioni di tonnellate di piombo tetraetile. Le conseguenze sui soggetti più deboli, in particolare i bambini, della “pandemia” allora in corso a causa del piombo tetraetile diffuso in aria ambiente dal traffico veicolare, erano così descritte negli anni Ottanta dal medico igienista Aldo Sacchetti, nel suo L’uomo antibiologico, pubblicato da Feltrinelli nel 1985:

 

Nei bambini si manifesta una riduzione del quoziente intellettivo e del coordinamento psicomotorio, con turbe del comportamento (distraibilità, incostanza, timidezza, frustrazione, impulsività, iperattività). A giudizio quasi unanime degli insegnanti, nelle scuole elementari cittadine gli alunni che accusano tali disturbi sono oggi molto più numerosi di una trentina di anni fa. Questi fanciulli sarebbero da sottoporre a test biochimici di esposizione al piombo. Accertamento che in Italia non viene quasi mai richiesto, né suggerito. Il 7,4% dei bambini statunitensi controllati attraverso il programma statale di sorveglianza presentava, nel 1977, indici di intossicazione e la piomboemia dei ricoverati in un istituto per ritardati mentali del New Jersey raggiungeva, nel 1979, livelli superiori a 200 microgrammi per 100 ml (cinque volte più elevati del massimo tollerabile per un adulto). Perciò negli USA, da alcuni anni, si è installata una doppia rete di distributori di carburanti: quella delle benzine al piombo, riservate ai veicoli di vecchia produzione, e quella delle benzine apiombiche, destinate alle vetture nuove, nelle quali il diverso diametro del bocchettone non consente di introdurre l’altro tipo di carburante. Ulteriori indagini confermavano infatti la grave insidia che questo metallo rappresenta per il sistema nervoso infantile. Il Dott. Herbert Needleman, del Children’s Hospital di Boston, aveva rilevato, in oltre duemila bambini, una significativa corrispondenza fra aumentato livello del piombo nei denti decidui e minore quoziente intellettivo. Ad analoghi risultati erano pervenuti studi condotti a Glasgow considerando anche gli effetti dell’esposizione prenatale, dato che la piomboemia del feto è direttamente correlata a quella materna.

Conflitti ambientali

Attorno all’insediamento produttivo di Fidenza, non risulterebbero particolari conflitti ambientali causati dall’attività della Distilleria di carbone, poi Cledca ed infine Carbochimica, cosicché il lascito di inquinamento ambientale, soprattutto da IPA, nel suolo e nella falda sarebbe emerso casualmente da  indagini effettuate per l’area Cip, due decenni dopo la chiusura di quest’ultima. Significativo a questo riguardo un episodio che risale all’estate del 1965: l’ufficio stampa del Comune aveva diramato un comunicato, ripreso dalla “Gazzetta di Parma” e da alcuni quotidiani nazionali, in cui si  affermava che il Ministro della sanità, senatore Mariotti, avrebbe in passato  sollecitato un’inchiesta per stabilire il grado di inquinamento causato a Fidenza dalla Cip, dalla Cledca e dalla Vetraria. Ebbene, l’avvocato Manlio Bonatti, consulente legale della Cledca, il 5 agosto scriveva al sindaco una lettera di protesta in cui affermava che “la direzione della Cledca ha consentito e consente volentieri, dietro richiesta del Medico provinciale di Parma, di  ospitare al suo interno alcune speciali apparecchiature dell’Istituto superiore di sanità, dando libero accesso ad ogni ora alle apparecchiature, ai funzionari e ai tecnici e che pertanto la direzione vede ricambiato un atto di cortesia con un atto di diffamazione”.
Dunque la scoperta del grave inquinamento nel sottosuolo dell’azienda e nella prima falda avviene apparentemente in modo casuale solo nell’estate del 1991: L’Unità sanitaria locale, Usl 5 di Fidenza, effettuando ricerche per definire l’estensione dell’inquinamento da piombo nell’area occupata dallo stabilimento Cip fino al 1970, si imbatté in una massiccia presenza di IPA che erano indiscutibilmente da attribuirsi al ciclo di produzione della Carbochimica piuttosto che a quello della Cip. Lo studio di approfondimento condotto l’anno successivo dal Servizio igiene pubblica della stessa Usl 5 evidenziò che l’inquinamento in questione era caratterizzato da idrocarburi policiclici aromatici, da solventi come benzene, toluene e fenoli, e infine da solventi clorurati, come tricloroetilene. Solo per questi ultimi l’origine poteva essere dubbia, perché non esclusivi della Carbochimica, essendo impiegati per lavaggi e opere di pulitura in generale nelle industrie, ma anche nelle lavanderie; inoltre, il tricloroetilene potrebbe essere risultato da reazioni impreviste delle sostanze impiegate nel processo produttivo della Cip.
Tenendo conto della gravità e profondità di penetrazione degli inquinanti si può presumere che la dispersione in ambiente degli stessi fosse iniziata fin dall’avvio dell’attività produttiva.
L’inquinamento può essere fatto risalire a diverse cause: gli impianti chimici, soprattutto nei primi decenni del Novecento, erano tutt’altro che a tenuta stagna, sottoposti a perdite normali ed eccezionali nel caso di malfunzionamenti, rotture, incidenti, incontrollabili con le scarse strumentazioni allora installate, con conseguenti sversamenti di idrocarburi; i numerosi serbatoi interrati (censiti ben 112, di cui 12 in muratura, 95 in metallo e 5 di tipologia non definita) non erano facilmente ispezionabili, dunque suscettibili col tempo di deterioramento, piccole fessurazioni, con perdita delle  sostanze contenute; infine i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale avevano distrutto serbatoi e impianti determinando un importante dispersione degli inquinanti negli strati superficiali del suolo sconvolti dalle esplosioni. Successivamente allo studio condotto dall’Usl 5, l’azienda aveva progettato e costruito un impianto di bonifica del terreno e della prima falda, godendo anche di un finanziamento regionale di 1 miliardo e 729 milioni di lire; l’impianto, entrato in esercizio nel luglio 1996,  ha funzionato negli ultimi anni di attività dell’azienda e viene ora recuperato e potenziato dal Piano di bonifica ora in corso. All’epoca, erano stati esclusi interventi radicali come la costruzione di una barriera idraulica per evitare l’ampliamento della contaminazione o l’asportazione del sottosuolo inquinato, perché, secondo l’azienda,  avrebbero richiesto l’evacuazione degli impianti e la sospensione delle attività. L’impianto installato di bioslurping  consisteva in una rete di pozzi per il recupero degli oli, integrata dalla degradazione biologica in situ dei contaminanti non recuperabili. Alcuni settori della cittadinanza, come il Movimento politico città aperta, avevano però criticato questa soluzione parziale, che infatti avrebbe poi lasciato in carico alle istituzioni pubbliche pesanti oneri per la bonifica completa e definitiva. Ma soprattutto l’atteggiamento della popolazione cominciò a cambiare con una insofferenza sempre più manifesta, quando l’azienda, in seguito all’attuazione della Direttiva Seveso, (peraltro in Italia avvenuta con incredibili ritardi) era stata inserita nella classe A, a rischio di incidente rilevante. Quando il 15 dicembre 1997 il prefetto infine licenziò il piano di emergenza esterno, la popolazione si interrogò preoccupata se valesse la pena rischiare per un incendio alla Carbochimica di dover evacuare un ospedale, un pensionato per anziani e una scuola materna, collocati nelle vicinanze. Ma la resistenza divenne aperta opposizione quando l’azienda all’inizio del nuovo millennio, come già si è detto, tentò, in articulo mortis,  di convertirsi in piattaforma per il trattamento di rifiuti speciali liquidi e per l’incenerimento di pneumatici, impianto, peraltro, mai realizzato.
Risulta che la ambiente urbano non sia stato gran che reattivo nei confronti della Campanini Tito & C., la fabbrica di concimi perfosfati, forse anche per lo stretto legame delle sue produzioni con il contesto agricolo del territorio.
Molto più conflittuale, invece, fu quasi fin dall’inizio il rapporto tra la città e la Cip. Questa, classificata industria insalubre  di prima classe, creava gravi problemi ambientali, sia per la tossicità del piombo tetraetile e di altre sostanze impiegate nel processo produttivo, sia per la pericolosità intrinseca di quest’ultimo, facilmente suscettibile di incendi ed esplosioni. Gli incendi e le esplosioni potevano essere provocati sia dal piombo tetraetile, per eccesso di temperatura, che dal sodio impiegato per la lega di partenza del processo. Infatti, già a partire dal 1958 accaddero vari incidenti, con esplosioni ed incendi, che in qualche caso, ad esempio nell’aprile 1960, provocarono danni agli impianti delle fabbriche vicine. Inoltre, fin da subito, vennero denunciate continue emissioni di fumi, vapori e gas di varia natura chimica che coinvolsero la cittadinanza e invasero talvolta gli stabilimenti vicini, provocandovi anche la sospensione del lavoro e manifestazioni di protesta delle maestranze. Infine vennero più volte segnalati episodi di scarichi di acque inquinate nei fossati stradali nei pressi della fabbrica. Insomma, ben presto la fabbrica acquistò presso la popolazione l’infausta nomea di “fabbrica della morte”.  Questi ripetuti episodi crearono nella popolazione uno stato d’allarme per la propria salute oltre che per quella dei lavoratori in fabbrica. La situazione di conflittualità con la città accompagnò l’intero ventennio di attività della Cip, con proteste anche molto vivaci in particolare dei lavoratori delle fabbriche vicine. Si giunse infine all’ipotesi di una delocalizzazione, prima nel Mezzogiorno, poi in località Marzanello presso Pieveottoville, dove si fece appena in tempo ad iniziare la costruzione del nuovo stabilimento, quando la crisi irreversibile per ragioni produttive di fine anni Sessanta sancì la chiusura della tormentata vicenda della Cip.

Lotte per la salute in fabbrica

Non si hanno notizie di lotte operaie sui temi ambientali alla Carbochimica e men che meno alla fabbrica di perfosfati, se non le mobilitazioni messe in atto negli anni del declino della Carbochimica per salvare la fabbrica e l’occupazione. Eppure problemi di esposizione a sostanze tossiche e cancerogene ve ne devono essere stati anche in quegli ambienti di lavoro: come abbiamo visto, benzene, nerofumo, Ipa, che sicuramente si disperdevano all’interno dei reparti ed entravano in contatto con gli addetti agli impianti, o per contatto e per inalazione, sono sostanze altamente tossiche. E’ probabile che prevalesse, nel sindacato e tra i lavoratori, la preoccupazione occupazionale, secondo uno schema ideologico produttivista e modernizzante che si ripropone solitamente in queste situazioni.
Uno schema che si ritrova anche tra i lavoratori della Cip, dove i rischi per le maestranze erano più clamorosi. Infatti i lavoratori Cip si schierarono sempre al fianco dell’azienda, in tutti i maggiori momenti di difficoltà nel rapporto con il territorio, come ad esempio durante la chiusura ordinata dal sindaco nel dicembre 1966.  Del resto, 150 posti di lavoro per una cittadina come Fidenza erano importanti, ancor più se si tiene in conto, come spesso si verificava nell’industria chimica, il miglior trattamento salariale di cui godevano, anche a compensazione della nocività. Insomma era una sorta di malintesa aristocrazia operaia, forse anche per questo poco propensa  a rinunciare al proprio status in nome di un ambiente più sicuro e sano.
Sta di fatto che in un documento della Camera del Lavoro di Parma del novembre 1966 la situazione della Cip veniva descritta in termini estremamente allarmanti, sia dal punto di vista delle condizioni igienico sanitarie, sia da quello dei diritti sindacali.  Forse non è casuale che questa denuncia non provenisse dal sindacato di categoria e dal territorio, ma dalla confederazione e dal capoluogo di provincia. Il documento tratteggiava una situazione di mancanza generalizzata di tutele e di diritti e di grave esposizione alle sostanze tossiche. I mezzi di protezione (maschere, guanti, ecc.) e gli strumenti di lavoro, quando si consumavano in un tempo inferiore a quello previsto dalla Direzione aziendale, erano addebitati ai lavoratori. Non si svolgeva un’adeguata informazione e formazione sul modo di proteggersi dalle intossicazioni, cosicché di fatto erano gli operai più anziani che istruivano i loro compagni di lavoro appena assunti. Le condizioni in cui operavano erano comunque pessime: il respirare continuamente per otto ore consecutive aria inquinata da piombo, il lavoro pesante, disagiato e intenso affaticavano l’operaio pregiudicandone  le capacità di operare e di utilizzare i pochi equipaggiamenti protettivi a sua disposizione. Questa situazione provocava un continuo ricambio dei dipendenti: si calcolava che in dieci anni si fossero succeduti in fabbrica circa duemila operai a fronte di un organico che non aveva mai superato le 150 unità. La situazione descritta spiegava l’alta incidenza degli infortuni e delle malattie professionali. Nel documento si avanzava il sospetto che le malattie professionali denunciate dalla Cip, circa una la mese, fossero solo una parte di quelle reali: i lavoratori intossicati sarebbero stati infatti indotti a dimettersi e in alcuni casi si sarebbe proceduto al licenziamento dell’operaio gravemente malato, come avvenne con Rosolino Borghesi, licenziato dalla Cip per scarso rendimento, circa due settimane prima del decesso attribuito ad intossicazione da piombo.  Comunque, anche questo documento, laddove accennava al problema dell’inquinamento esterno, riproponeva il consueto argomento per cui non poteva esserci contraddizione tra ambiente e lavoro: infatti, laddove fossero stati eliminati i pericoli per i lavoratori, automaticamente si risolvevano anche i problemi dell’impatto inquinante sul territorio. Argomentazione solo parzialmente fondata, perché i sistemi interni ai reparti di captazione e di abbattimento di fumi e vapori non garantiscono necessariamente il contenimento delle emissioni esterne, sia in aria ambiente, sia, attraverso gli scarichi, nei fossi, nelle falde e sui terreni, sia con la dispersione dei fanghi e dei rifiuti.

Strategie d’impresa legate alla questione ambientale

Si è già accennato alla reazione risentita della Carbochimica nell’estate del 1965 di fronte alla sola ipotesi che la propria attività produttiva potesse rappresentare un problema per l’ambiente. Soltanto quando venne dimostrata con inoppugnabile evidenza la contaminazione della falda (ma ormai il disastro ambientale era ampiamente consumato) la Carbochimica si decise ad intervenire per ridurre parzialmente il danno, ottenendo peraltro anche un consistente finanziamento pubblico e cercando in ogni modo di sfruttare l’impianto per fare business, trasformandolo in piattaforma per il trattamento di rifiuti speciali liquidi. L’argomento forte è sempre stato, come per la Cip, l’interesse sociale della comunità di Fidenza per attività che offrivano lavoro, anche ben retribuito. La Cip, in particolare, come vedremo, ha sempre ribattuto con estrema tenacia, colpo su colpo, ai diversi tentativi delle istituzioni locali di contenerne il devastante impatto sull’ambiente cittadino. L’azienda ha saputo sempre resistere al lungo contenzioso, che, come si è visto, ha registrato una sostanziale solidarietà con l’azienda da parte dei dipendenti. Cosicché la chiusura della “fabbrica della morte” non venne sancita dall’opposizione del territorio, ma dalle logiche del mercato.

L’atteggiamento delle autorità locali

Delle preoccupazioni della cittadinanza si sono fatte interpreti le amministrazioni comunali guidate,  nel periodo di attività della Cip, da tre Sindaci, Adolfo Porcellini, Tullio Marchetti e Arturo Cantini, espressione di coalizioni diverse, sia di sinistra che di centrosinistra: per tutti il problema Cip è stato uno dei maggiori crucci durante il periodo di governo della città. Va inoltre riconosciuto che i principali partiti politici della città, pur con inevitabili polemiche tra di loro, nei riguardi del "problema Cip" hanno tenuto, almeno a livello ufficiale, una posizione simile, tendente all'allontanamento della fabbrica dalla città.
La prima ricerca sull'inquinamento provocato dalla Cip fu commissionata, su sollecitazione del Consiglio Provinciale di Sanità, dal Sindaco Porcellini: l'indagine che si svolse tra il febbraio e il novembre del 1962, fu condotta dai professori Adolfo Ferrari e Vittorio Monici, rispettivamente direttori degli Istituti di Chimica Generale e di Igiene della Facoltà di Scienze presso l'Università di Parma; vennero effettuate analisi di campioni di aria prelevati sia nelle adiacenze della fabbrica sia nel centro della città e di campioni di sangue prelevati ad alcuni lavoratori delle fabbriche vicine; in particolare le analisi dei campioni di aria evidenziarono la presenza "di tenori di piombo assai superiori a quelli tollerabili nell'aria esterna" (Relazione sulle indagini della ricerca del piombo nell'aria di alcune zone del comune di Fidenza, presentata dal professor Ferrari il 15 marzo del 1963).
A seguito dei risultati dell'indagine, il Sindaco Porcellini, il 16 aprile 1963, ordinò alla Cip di sospendere il funzionamento e l'attività dei forni impiegati nello stabilimento per la fusione ed il recupero del piombo dalle melme, in attesa della messa in opera di impianti in grado di eliminare l'inquinamento. L'ordinanza del Sindaco venne, con varie scuse, disattesa dalla Cip  e il Sindaco dovette di persona, accompagnato dai carabinieri, recarsi nell'ottobre del 1963, ad apporre i sigilli ai forni. L'ordinanza fu revocata pochi giorni dopo. Comunque, successivamente, la Cip provvide in qualche modo ad installare un impianto di filtrazione dei fumi di scarico dei forni fusori del piombo, che rappresentavano uno degli impianti più critici.
Tuttavia, il 23 dicembre 1963, pochi giorni dopo l'ennesimo grave incidente avvenuto nella fabbrica (scoppio di un gasometro con conseguente incendio di vaste proporzioni), il Sindaco Porcellini emise una nuova ordinanza che questa volta imponeva alla Cip di sospendere ogni lavorazione. Anche in questo caso la Cip cercò di non ottemperare all'ordinanza del Sindaco, ottenendo infine, il 25 gennaio del 1964, il nulla osta del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco a riprendere la produzione.
A seguito dell'installazione del filtro per i fumi del forno, sempre su sollecitazione del Consiglio Provinciale di Sanità, il Sindaco Porcellini commissionò,  agli stessi professori Ferrari e Monici, una seconda indagine sull’inquinamento da piombo: l'indagine si concluse il 24 luglio 1964 con l'affermazione che, “pur essendo migliorata la situazione generale, rispetto alle precedenti analisi, sussistono tuttora fenomeni di inquinamento eccedenti la norma”.
Una terza indagine fu effettuata dal Ministero della Sanità tra l'aprile e il luglio del 1965: i risultati delle indagini provocarono accese polemiche, perché giunsero alla conclusione che, a parte qualche dato eccedente alla norma, le concentrazioni di piombo tetraetile riscontrate nell'aria e nel sangue dei cittadini non sarebbero state pericolose. In particolare il Sindaco Tullio Marchetti, che aveva sostituito Arturo Porcellini nel maggio del 1964, in una lettera al Ministro della Sanità Mariotti avanzò il sospetto che l'azienda, durante il periodo di attività del laboratorio mobile, avesse molto ridotto, se non quasi cessato, la propria attività per riprenderla a pieno ritmo una volta terminata l'indagine. Le stesse accuse furono ripetute durante una pubblica assemblea tenutasi il 2 ottobre al Teatro Magnani dal Segretario della Camera del Lavoro, Ercole Ghiozzi; a tali accuse rispose la Gazzetta di Parma, che in tutta la vicenda espresse sempre una posizione favorevole all'azienda, facendo osservare, in un articolo del 5 ottobre, che nel periodo corrispondente all'indagine l'azienda aveva fatturato un 30% in più, a riprova che la fabbrica si trovava in piena attività. In ogni modo, in conseguenza dell'indagine effettuata, il Ministero della Sanità promosse la costituzione di una Commissione Interministeriale (comprendeva infatti anche rappresentanti dei ministeri dell'Industria e del Lavoro) che nel luglio del 1966 impartì alla Cip diverse disposizioni tendenti a migliorare il grado di sicurezza degli impianti e a ridurre il pericolo di inquinamento atmosferico. La non osservanza da parte dell'azienda di tali disposizioni aprì la fase più acuta del conflitto con l'amministrazione della città.
Il 3 dicembre del 1966, dopo un sopralluogo effettuato da vari funzionari del Ministero della Sanità nello stabilimento che aveva evidenziato come l'azienda non avesse seguito nessuna delle disposizioni in precedenza impartite, il Sindaco Marchetti dispose la chiusura dello stabilimento. L'ordinanza suscitò l'opposizione delle maestranze che, temendo per il proprio posto di lavoro, cercarono di occupare la fabbrica e di continuare la produzione. Per prevenire eventuali incidenti vennero fatti affluire in città anche rinforzi di polizia. Il provvedimento venne comunque eseguito: il 12 dicembre il Sindaco Marchetti, accompagnato dal vicesindaco Arturo Cantini, si recò in fabbrica e poté constatare l'avvenuta cessazione delle attività produttive. Per una ventina di giorni la fabbrica restò improduttiva, finché, il 24 dicembre, il Sindaco constato che l'azienda aveva finalmente adempiuto alle richieste formulate a suo tempo dalla Commissione Interministeriale e preso atto dell'intenzione da parte dell'azienda di trasferire in un prossimo futuro lo stabilimento in altra località, revocò l'ordinanza del 3 dicembre. Come già si è detto, il trasferimento non avvenne, perché, sopraggiunta la crisi di mercato, la Cip, nel 1970, cessò definitivamente ogni attività.
Il Comune di Fidenza rispetto all’intero insediamento produttivo, dopo la dismissione definitiva della produzione, ne decise l’acquisizione per gestire direttamente la bonifica e programmare il successivo riutilizzo, nel 2001 dell’area ex Cip e nel 2005 dell’area ex Carbochimica.

Aspetti giudiziari e indagini epidemiologiche

Dal punto di vista giudiziario risulterebbe che le iniziative siano interamente legate ai numerosi contenziosi, di cui già si è fatto cenno, tra le istituzioni ed la Cip in particolare, nel periodo di attività. Non sono note iniziative penali o risarcitorie in sede civile accese successivamente per i danni alla salute ed all’ambiente causati dalle imprese in questione. L’onere delle bonifiche, dopo i fallimenti, è rimasto interamente a carico degli enti pubblici.
Per quanto riguarda le indagini epidemiologiche sono disponibili i primi risultati, pubblicati nel 2011, del Progetto Sentieri (Studio epidemiologico dei territori e degli insediamenti esposti a rischio inquinamento) coordinato dall’Istituto superiore di sanità:
“Il Sin Fidenza è costituito da 2 Comuni, con una popolazione complessiva di 41.330 abitanti al Censimento 2001. Il Decreto di perimetrazione del Sin elenca la presenza delle seguenti tipologie di impianti: chimico e discarica di rifiuti urbani e speciali. In questo Sin la mortalità per tutte le cause, in entrambi i generi, non si discosta dalla mortalità attesa; tuttavia tra gli uomini si è osservato un eccesso della mortalità per le cause tumorali e per le malattie dell’apparato digerente. Tra le donne si è osservato un eccesso di mortalità per le malattie dell’apparato circolatorio e per le malattie dell’apparato digerente. Per le cause di morte per le quali vi è a priori un’evidenza Sufficiente o Limitata di associazione con le fonti di esposizioni ambientali del Sin, in entrambi i generi si osserva un difetto della mortalità per patologie a carico dell’apparato respiratorio e un eccesso del tumore dello stomaco tra gli uomini. L’eccesso di mortalità per tumore dello stomaco osservato tra gli uomini può essere riconducibile a una esposizione occupazionale. Si ritiene importante l’acquisizione di dati per la valutazione dello stato attuale dell’inquinamento ambientale”.

Caratteristiche del danno ambientale

Per quanto riguarda la Carbochimica, come già si è detto, la contaminazione riguarda il sottosuolo e la prima falda e si caratterizza per concentrazioni elevatissime di idrocarburi policiclici aromatici. Dalle prime caratterizzazioni effettuate dalla stessa azienda nei primi anni Novanta con  carotaggi e perforazioni, di cui una spinta fino a 60 m di profondità, si ebbe una visione sufficientemente chiara della distribuzione quali-quantitativa degli inquinanti ed una conoscenza sufficientemente dettagliata della litostratigrafia dei primi 20 m. In base alle determinazioni quantitative di idrocarburi rinvenuti sui campioni di terreno e considerata l’estensione e le profondità della contaminazione si è potuto stimare in 400 - 500 tonnellate la quantità di idrocarburi a quella data presenti nel suolo.   Le mappe sotto riportate descrivono la distribuzione degli idrocarburi aromatici dispersi nel sottosuolo a due diverse profondità e per un’area che si estende anche all’interno dell’ex Cip (si tenga conto che i limiti oggi vigenti per gli idrocarburi aromatici sono rispettivamente 1 mg/kg per il verde pubblico e privato e residenziale e 100 mg/kg per i siti ad uso commerciale e industriale).

Per l’area ex Cip, oltre allo sconfinamento nel sottosuolo degli idrocarburi originati dalla Carbochimica, come abbiamo visto sopra, l’inquinamento si caratterizza soprattutto per l’importante dispersione di piombo tetraetile e di piombo nel suolo, nel sottosuolo e nella falda.
“Complessivamente la contaminazione al suolo nell’area ex Cip si estende fino ad una profondità di tre metri ad eccezione di due porzioni denominate G ed R nelle quali è presente rispettivamente una contaminazione da piombo tetraetile ed una contaminazione da piombo che si estende anche oltre tale profondità”. Le concentrazioni di piombo tetraetile rilevate nel suolo durante la campagna del 18-23 novembre 1996 andavano da 1 a oltre 1000 mg/kg, mentre quelle di piombo da meno di 100 a oltre 50.000  mg/kg (valore limite del piombo per i siti industriali 1000 mg/kg)
In ambedue i siti, all’atto della dismissione, erano presenti cisterne interrate in parte contenenti ancora sostanze inquinanti, idrocarburi e  residui di lavorazione nell’ex Carbochimica e, nell’ex Cip, in particolare alcune piscine con elevate concentrazioni di piombo tetraetile.

Processi di bonifica

Il decreto ministeriale n. 468 del 18 settembre 2001, Regolamento recante: «Programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale»,  inseriva Fidenza fra i Siti d’interesse nazionale (Sin) e la successiva perimetrazione (Dm 16 ottobre 2002, ) descriveva le aree da sottoporre a interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza, ripristino ambientale e attività di monitoraggio. Oltre all’insediamento industriale dell’ex Cip e Carbochimica, il Sin comprendeva anche le aree site  in  località  Vallicella,  Formio,  sedi  di discariche dismesse di rifiuti urbani e  speciali,  ubicate  in  aree golenali, che presentavano inquinamenti  da  sostanza  organica e metalli pesanti e dove i fenomeni erosivi del torrente Stirone ne avevano parzialmente messo a nudo i rifiuti, ed infine l'area  di  S. Nicomede, contaminata dalle ceneri dell'impianto di incenerimento dismesso, anch’essa ubicata in area esondabile dello Stirone medesimo.

Fra tali aree il Comune di Fidenza ha individuato i siti adeguati al riuso post bonifica (ex Cip, Carbochimica e podere Loghetto), predisponendo e approvando tra il 2001 e il 2002 il Piano particolareggiato Loghetto (PP.Log) di iniziativa pubblica, e inserendolo successivamente, con Dcc n. 19/2008, nel Prg vigente, come Apea, Area Produttiva Ecologicamente Attrezzata Marconi, per una estensione di circa 115.310 mq.

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Nel Decreto ministeriale del 2001 venivano anche stimati i costi della bonifica del Sin in 39 miliardi di lire, pari a poco più di 20 milioni di euro.
L’Accordo di programma quadro intervenuto nel 2008 tra il Governo e la Regione Emilia Romagna definiva con precisione lo stato dell’opera di bonifica a quella data realizzata, quella programmata ed i costi complessivi, pari a 23.627.356,99, di cui 14.000.000 messi in preventivo per completare la bonifica del Sin.
Di seguito riassumiamo sia i diversi interventi distinti per aree per la bonifica del Sin, sia i costi sostenuti e programmati:

Ex Cip Piano di caratterizzazione  realizzato in convenzione con Regione Emilia Romagna                                                                                                             

€ 154.937,07

Messa in sicurezza già realizzata (asportazione di rifiuti pericolosi costituiti in particolare da piombo tetraetile, demolizione di fabbricati e attrezzature ancora presenti, realizzazione di barriera idraulica per l’intercettazione e la salvaguardia della falda), finanziati in gran parte dal Ministero dell’Ambiente, Dm n. 468/2001                                                                                                            

€ 5.463.083,90

Primo stralcio del progetto di bonifica da realizzare (asportazione di terreni e attrezzature interrate contaminate con struttura di sconfinamento e con adeguate protezioni compresi autorespiratori per gli addetti; trattamento delle acque di falda contaminate da idrocarburi, attività preparatoria di trattamento del terreno con biopila), finanziato con fondi ex Dm n. 468/2001, già assegnati alla Regione Emilia Romagna                                                                        

€ 1.126.984,50

Progetto completo di bonifica (realizzazione della biopila per il trattamento degli Ipa e successivo utilizzo dei terreni disinquinati per la realizzazione di una barriera verde che si offre verso la ferrovia MI-BO come nuova “area boscata” urbana e sedime delle piattaforme fotovoltaiche le quali, unitamente al sistema di cogenerazione, costituiranno il cuore energetico dell’insediamento produttivo, finanziato dal comune di Fidenza per  €  330.000,00, dalla Provincia di Parma per  € 173.000,00 e dal Fondo unico investimenti del Ministero dell’Ambiente per € 2.239.038,36, per un totale di

€ 2.742.038,36

Ex Carbochimica
Già durante l’attività della fabbrica, nei primi  anni Novanta,  la Regione Emilia Romagna aveva stanziato,  per finanziare l’impianto bioslurping di depurazione degli Ipa, 1.729.000.000 di lire pari a [nda]

€ 892.953,97

Il Comune di Fidenza, a partire dal 2005 ha poi adempiuto alle prescrizioni della conferenza dei servizi decisoria del 19 marzo 2004 (interventi di messa in sicurezza d’emergenza, integrazioni al piano di caratterizzazione e progettazione della bonifica) con finanziamenti sotto dettagliati

ed un costo complessivo di

 € 1.809.146,08

Per la bonifica definitiva del sito si prevedevano diversi interventi:
rimozione delle strutture e degli impianti esistenti; gestione della rete dei pozzi
barriera per la bonifica della falda, che rimarranno in funzione fino al termine
della bonifica dei terreni; trattamento in situ del terreno delle zone A1 A2 A3
tramite iniezione selettiva di miscela di acqua con bioattivatori enzimatico-
microbici, e nutrienti/sinergizzanti; trattamento in situ di terreno insaturo delle
zone B1 e B2, integrando con nuovi punti di estrazione e trattamento vapori il
sistema preesistente dal 1996 di bioslurping, migliorandone l’efficienza con
interventi sistematici di fatturazione pneumatica;  trattamento on site del
terreno insaturo delle zone C1 e C2 nonché del volume del terreno contaminato
proveniente dalla rimozione dei serbatoi interrati, consistente nella
realizzazione i una biopila nell’area.

I costi della bonifica sono distribuiti tra i vari enti pubblici come da dettaglio:

per un costo complessivo di

€ 9.500.961,64

Ex discarica Vallicella
L’intervento di messa in sicurezza attuato è consistito nella posa di una barriera

impermeabile per isolare in via definitiva i rifiuti

per un costo complessivo  di

€ 596.771.47

Ex forno inceneritore di Nicomede
Il piano di caratterizzazione ed il progetto preliminare di bonifica sono stati realizzati con fondi ministeriale ex 468/2002 pari a                                                      

€ 183.480,00

Per gli interventi di bonifica e la riqualificazione dell’area inserita in zona tutelata sono previsti interventi a carico della provincia di Parma per € 157.000 e della regione Emilia Romagna per 1 milione di euro per un costo complessivo di

€ 1.157.000,00
Totale costi della bonifica spesi e previsti, tutti a carico di enti pubblici                  

€ 23.627.356,99

La bonifica prevede la totale rimozione dei fabbricati e degli impianti esistenti, già avvenuta per l’ex Cip ed in corso di realizzazione per l’ex-Carbochimica nel 2013, compresa la torre dell’acqua dell’ex Cip che in un primo tempo si era pensato di lasciare sul sito a testimonianza del passato industriale, abbattuta invece il 28 febbraio 2013, perché ritenuta incompatibile con la completa bonifica.
Dall’estate 2013 è iniziata la fase più impegnativa della bonifica dell’ex Carbochimica, che consiste innanzitutto nella scoibentazione di circa 80 serbatoi, in parte ancora pieni di circa 5.000 tonnellate di sostanze chimiche, di  25.000m2 di coperture e di 30 km di tubature, in gran parte rivestiti in amianto, quindi  nel recupero delle sostanze inquinanti ed infine nella demolizione di tutti gli impianti e attrezzature con relativo smaltimento.  Si prevede di concludere i lavori entro la fine del 2013. In questa fase è stata avviata, finalmente, una procedura di informazione della popolazione, con incontri periodici e con la creazione di un apposito sito www.excarbochimica.it
Infine rimarrebbe per il 2014 la bonifica dei rimanenti terreni inquinati  con la costruzione completa e la gestione delle biopile e la creazione dell’area boscata urbana. Dopo di che, verificata con le necessarie misurazione, l’avvenuta bonifica, il sito potrà tornare a disposizione della città per la realizzazione della progettata Apea.

Ipotesi ed esperienze di recupero

L’amministrazione comunale, come si è detto, ha acquisito a suo tempo le aree ex Cip e ex Carbochimica ed è ora impegnata a portare a termine la bonifica con l’obiettivo di valorizzarle, essendo adiacenti al centro storico, e di recuperarle per una reindustrializzazione di qualità, rispondente ai parametri indicati dalla Regione Emilia Romagna (Atto d’indirizzo del Consiglio Regionale N. 118/07) e denominata Apea. Le Apea, Aree Produttive Ecologicamente Attrezzate, si caratterizzano per
“il sistema di requisiti a cui deve rispondere una moderna offerta insediativa, adeguata alle esigenze che pongono le aziende produttive. Queste aree, assieme alla riqualificazione di quelle esistenti, dovranno dunque essere in grado di garantire tutte le risposte alle imprese locali che necessitano di nuovi  spazi per innovare i propri processi produttivi, razionalizzare la logistica, migliorare l’immagine, qualificare le condizioni di lavoro e di sicurezza. Per ridurre la dispersione dell’offerta insediativa e il consumo di
territorio, il Ptcp individua un numero limitato di aree a valenza strategica sulle quali investire in termini di servizi, infrastrutture, info-strutture e dotazioni ambientali, fino a garantire i requisiti di Apea. Per la sua collocazione ottimale rispetto alle grandi infrastrutture, e meno conflittuale di altre aree rispetto alla tutela delle principali risorse ambientali e paesaggistiche, nonché per il rilievo dimensionale, la zona produttiva di Via Marconi [ovvero l’area dell’ex Cip e dell’ex Carbochimica, nda]  è stata qualificata come Apea. La progettazione, realizzazione e successiva gestione dell’Apea Marconi dovrebbero dunque perseguire i seguenti obiettivi strategici: un miglioramento delle condizioni di accessibilità per le merci e le persone; un potenziamento dei servizi di trasporto pubblico locale; la qualificazione dei servizi alle imprese e ai lavoratori; una maggiore efficienza energetica e la promozione dell’uso di fonti energetiche alternative e rinnovabili; l’ottimizzazione del ciclo dei rifiuti; la gestione integrata del ciclo idrico; il miglioramento dell’immagine complessiva degli insediamenti in termini di riordino urbanistico-edilizio, di qualità architettonica, di opere di mitigazione e ambientazione paesaggistica; adeguate dotazioni ecologiche e ambientali” (Comune di Fidenza, Apea Marconi. Rapporto preliminare, 13 ottobre 2009).

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Fonti bibliografiche e documentarie

Pubblicazioni

  • A. Anni, A. Copelli, Storia di Fidenza, Battei, Parma 1982.
  • Anpa, Enea, Unichevi, Ccr, Suoli e falde contaminate. Sito industriale dismesso. Area Cip, Compagnia Italiana Petroli: caratterizzazione e proposte di risanamento, 2000.
  • A. Arelli, L. Grandi, La riqualificazione del sito di Fidenza, “Ecoscienza”, n. 3, a. 2010, pp. 114–115.
  • Carbo Chemicals Spa (a cura di), Impianto di Bonifica del sottosuolo, Fidenza 1996.
  • Carbochimica Italiana Spa (a cura di), 1888/1988 I cento anni della Carbochimica Italiana Spa, Castelsangiovanni, 1988.
  • Classe 5a A Chimici, dell’Itis Berenini di Fidenza, Storia dell’industria chimica a Fidenza. 1880-1980, a. s. 1999 – 2000, Fidenza, 2000.
  • Cledca (a cura di), I cinquant’anni della Cledca, fascicolo commemorativo, 1954.
  • C. Giavarini, Piombo tetraetile: considerazioni sul procedimento di produzione industriale, “La rivista dei combustibili”, a. 24, n. 1, gennaio 1970.
  • C. Giavarini, Gli anni del piombo, "La Chimica e l'Industria" n. 12, dicembre 1990, pp. 1027-1031.
  • Ministero di Industria, Agricoltura e Foreste (a cura del), Notizie sulle condizioni industriali della Provincia di Parma, Roma, 1980; ristampato in L. Farinelli, G. Pelos, G. Uccelli, Cento anni di associazionismo industriale a Parma, vol. 2°, Documenti, Silva Editore, Parma, 1996.
  • M. Ruzzenenti, La storia controversa del piombo tetraetile, in P. P. Poggio e M. Ruzzenenti (a cura di), Il caso italiano: industria, chimica e ambiente, Fondazione Micheletti – Jaca Book, Milano, 2012, pp. 225-251.
  • Unità Sanitaria Locale 5 di Fidenza (a cura della), Inquinamento del sottosuolo di un'area industriale. Dall'indagine conoscitiva all'ipotesi di bonifica, Pitagora Editrice, Bologna, 1993.

Archivi

  • Archivio corrente del Comune, Buste relativa all’insediamento produttivo ex Carbochimica ed ex Cip ed al Sin di Fidenza, presso il Municipio, piazza Garibaldi 1, Fidenza.

Web

Settembre 2013 - A cura di Marino Ruzzenenti

P.S. La presente scheda ha utilizzato, in particolare per la parte storica, un pregevole lavoro svolto dalla classe 5a A Chimici, dell’Itis Berenini di Fidenza, nell’a. s. 1999 – 2000 coordinata dai professori Renata Boschi ed Alberto Dazzi che si ringraziano anche per l’ulteriore documentazione gentilmente fornita.

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Scalo merci, primi Novecento.
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Addetti al nerofumo, primi Novecento.
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Cledca.
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Interno della Cledca.
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Cledca bombardata 1945.
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Cledca bombardata 1945.
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Cledca. Al lavoro dopo i bombardamenti.
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Cledca Cinquantesimo, 1954.
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Carbochimica dismessa.
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Carbochimica dismessa.
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Carbochimica dismessa.
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Carbochimica dismessa.